Questa lettera è stata spedita dal Dott.Aldo Lotta alla stampa (L’Unione Sarda, La Nuova Sardegna, Il Sardegna blu, La Repubblica, nonché al Presidente dell’ordine dei giornalisti della Sardegna) il giorno 28 dicembre 2009.
Oggetto: sul destino di una famiglia
Alle gentile redazione con preghiera di pubblicazione.
Credo proprio che il mondo (intendo noi che al mondo diamo un significato), non vada nella direzione giusta.
Leggo nella copia de “L’Unione Sarda” del 27.12.2009 della Casamatta di Quartu S.Elena, e scopro che alcune indagini potrebbero portare alla sua chiusura; leggo che le procedure avrebbero portato al riscontro di irregolarità (scadenza di autorizzazione , cura abusiva degli ospiti…). Ma io, e tantissimi miei colleghi psichiatri dal 1995 in poi abbiamo avuto a che fare con questi ospiti, con gli operatori, con la responsabile Sig.ra Gisella Trincas, i nostri contatti sono avvenuti con le persone, spesso nei Centri di Salute Mentale, a volte nella stessa Casamatta.
Io ho dialogato con loro, ho assegnato le cure e ho raccomandato, in termini di prescrizione, che nelle circostanze di una emergenza, dovessero essere somministrati determinati farmaci, per evitare sofferenze inutili e per impedire che da una piccola crisi potesse evolvere una ricaduta nell’acuzie. Esattamente come ho sempre fatto per le persone che vivono all’interno del proprio nucleo familiare, perché di questo si tratta: la dimensione familiare è quello che, più di ogni altra caratteristica, nella realtà di Casamatta, ho sempre apprezzato.
Sicuro che le persone con cui condividevo i pochi minuti della visita sarebbero poi tornati in un ambiente in cui tutto, dagli ospiti agli operatori, alla struttura architettonica, al mobilio, ai tempi e modi della quotidianità rimandasse al calore familiare.
E tale certezza era tale che poteva ripagarmi dell’angoscia e delusione che, al contrario, mi suscitano certe situazioni strazianti e devastate insite in alcune famiglie “reali”. O, ancora di più, nell’inferno del carcere, dove spessissimo persone la cui colpa più grande è essere stati vittime del disagio mentale senza alcuna protezione socio-economica, trascorrono mesi di tormenti aggiuntivi tali da compromettere, a volte irreversibilmente, la loro salute psico-fisica (559 suicidi in carcere dal 2000, 71 solo nel 2009).
Ma quello che veramente mi viene difficile pensare è che tipo di trasferimento sarebbero costretti ad affrontare gli attuali ospiti della struttura nel caso di un’effettiva chiusura della loro abitazione: loro che nel tempo hanno gradualmente costituito insieme un orizzonte di significati la cui autenticità trova riscontro solo all’interno di una dimensione collettiva, di gruppo familiare, e solo in rapporto ai riferimenti ambientali, di casa, di quartiere, di comunità, attuali.
Mi auguro, davvero, che in questo mondo ambiguo, dove spesso si assiste al gioco insignificante tra linee di pensiero vuote, prevalga in questa “piccola” significativa vicenda la visione dignitosa e umana della Verità.