Abbiamo appena lasciata alle spalle la “Giornata mondiale della salute mentale”, promossa il 10 ottobre. L’Italia aveva buone ragioni per essere in prima fila, però c’è stato uno scarso riscontro, anche da parte dei media. L’argomento non è certo in testa all’agenda governativa e l’interesse pubblico si è affievolito nonostante un luminoso passato. Chi prende oggi la parola per documentare la situazione della salute mentale riceve un ascolto scarso, nonostante la quantità di episodi inquietanti che accadono di continuo a testimoniare che si è tornati indietro e che la violenza, qui, mostra spesso il proprio volto drammatico.
C’è ancora chi cerca di sollevare il velo di silenzio e tenta di rilanciare iniziative di denuncia di quanto non si è fatto e di come si è tornati indietro, sono però isole di sopravvivenza critica che agiscono sotterraneamente. Attraverso la rivista di filosofia (!) “aut aut”, ho cercato di rilanciare un poco di interesse con un recente fascicolo curato da Mario Colucci, Mauro Bertani e Pierangelo Di Vittorio e intitolato “La psichiatria e il futuro della salute mentale”, dove l’abbiamo discusso si è verificata molta attenzione ma poi tutto è rimasto recintato lì. Nel senso che la spinta culturale non è certo morta, tuttavia la sordità istituzionale è ormai invasiva e dominante.
Con un’enfasi di sapore manzoniano si potrebbe dire: “Basaglia, chi era costui?”. Come no, tutti lo ricordiamo e il 2024, ormai vicino, cento anni dalla sua nascita, sarà ricco di iniziative, convegni e ripubblicazioni dei suoi scritti: il suo nome risuonerà spesso, ma chi tornerà davvero a riflettere sulle porte che ha aperto negli anni Settanta e Ottanta dello scorso secolo? Pochi, immagino, nonostante la ripresa di alcune iniziative come, per esempio, la “Collana 180” (che sarà rilanciata dall’editore Meltemi). Libri e dibattiti verranno subito collocati in quel dimenticatoio che ormai domina lo scenario della nostra psichiatria.
Quasi nessuno sarà indotto a chiedersi perché dovremmo tornare a leggere e a pensare ciò che ha fatto e scritto Basaglia: mi chiedo se davvero siamo andati avanti e se davvero abbiamo messo a frutto quello che ha cercato di comunicare a tutti noi chiudendo i manicomi, che cosa rappresentava questa chiusura come salto di civiltà e di cultura. Sembra che non si possa e non si debba tornare indietro, seguitiamo a illuderci che siamo andati ben oltre quel decisivo traguardo.
Trieste, nello specifico, dovrebbe saperne qualcosa perché, nel suo parco di San Giovanni, ha ospitato una “rivoluzione” che adesso quasi esitiamo a chiamare così ma che ha dato un esempio in tante zone del nostro pianeta. Vogliamo sintetizzarlo questo esempio? A mio parere, consiste meno nella stessa legge 180 che stiamo continuando a difendere da chi vorrebbe svuotarla e renderla inoperante, quanto nel modo che dovrebbe caratterizzare il lavoro della psichiatria e, a partire da qui, nel modo in cui potremmo e dovremmo costruire la futura salute mentale. Non solo non abbiamo tenuto vicino a noi il pensiero e la pratica di Basaglia, ma siamo arretrati, come è facilmente riscontrabile.
Una pratica e un pensiero che sono nemici dichiarati dell’individualismo, che oggi caratterizza ogni sapere e ogni saper fare, e che non hanno niente in comune con il tecnicismo che ormai prevale ovunque, anche nel campo della psichiatria. Basaglia ci ha insegnato il contrario: prima della chiusura individuale c’è l’apertura sociale, l’io non è isolabile (forse è proprio così che ci si ammala) e il suo bisogno di socialità viene prima di ogni altra esigenza. Questo vale per il cosiddetto “paziente” e vale, dove assolutamente volere, anche per il cosiddetto “medico”.
Già, “chi era costui?”. È proprio perciò che lo allontaniamo in un ricordo quasi vago, perché oggi la scena va dovunque capovolgendosi in termini di distanziazione e di atteggiamento medicalizzante: il malato deve stare là, a una certa distanza, e il medico sta comunque più in alto, protetto dalla sua professionalità tecnica. Ciò vale per qualunque malato e, in maniera ancor più drammatica, per chi viene definito “malato di mente”.
In altre parole, Basaglia-Carneade ha cercato di insegnarci che abolire simili distanze è il compito culturale (e politico) dello psichiatra, tuttavia questo è risultato un insegnamento talmente scomodo e fuori tempo che ce lo siamo dimenticato facendo di Basaglia quasi un santino da scrivania, qualcosa di simbolico e inutile.