di Anna Poma

Proviamo a cambiare punto di osservazione, a guardare a con gli occhi di soffre o ha sofferto di un disturbo mentale la lettura che, indistintamente, è stata data dell’aggressore di Silvio Berlusconi. Intanto le parole. Matto, pazzo, povero idiota, psicolabile. Parole pietrificate dall’assunto che le legherebbe ad una stessa famiglia di significati a cui appartengono, senza dubbio alcuno, altre parole sporche: imprevedibilità, influenzabilità, irresponsabilità, violenza, pericolo. Chi vive la sofferenza mentale sa bene di queste equazioni. Sa bene che, sentirsele ritagliare addosso, significa quasi immediatamente portarne le stigmate, la caduta di credibilità, la perdita di diritto. Significa che ogni tuo gesto, scelta, intenzione verrà sempre e comunque confinata nel tranello logico che baratta la colpevolezza con l’invalidazione, la responsabilità con una diseguaglianza irrevocabile e assoluta che fa di te una persona a metà, quasi una non persona. Della tua vita, una vita di scarto. Che ti sbatte fuori dal contratto sociale pur graziandoti, se dovessi commettere un delitto, della tua colpa e della tua responsabilità. E’ la tua definizione a decidere di te, a renderti vulnerabile e a definire a priori il tuo destino: questa la sentenza, Se poi non ti accade di violare la legge, di aggredire qualcuno, e al contrario ti accade di subire gli oltraggi di chi non sconta quella definizione sommaria, resterai comunque un ‘povero idiota”. Cosa resta da fare di te non è difficile immaginarlo. In questi giorni lo hanno detto tutti- da destra a sinistra, dall’alto e dal basso. Lo si dice, anche se non lo si dice. Richiudiamo le porte sul problema, riedifichiamo muri. Non importa come li chiameremo. Niente da aggiungere. Nessuna domanda.

Eppure qualche domanda ce la saremmo aspettata. Ad esempio: posto che alcuni grossolani dati di fatto (essere stato ricoverato in una comunità terapeutica, essere in cura da una psicologa da dieci anni) permettano di valutare l’entità della sofferenza dell’aggressore di Berlusconi, che nesso c’è tra quella sofferenza mentale e quel gesto? C’è un nesso? In base a quale criterio lo stabiliamo o lo escludiamo? Quante cose dovremmo sapere per risalire, non certo alle cause, ma magari alle ragioni di quell’azione? A chi giova conoscerle? Occorrono una genealogia individuale o una genealogia sociale per spiegare cosa accade agli uomini che commettono dei crimini? Quanti sono i gesti violenti commessi da persone che non hanno mai attraversato un’esperienza di disturbo mentale? Quante persone sono influenzabili?

E ancora: i giornalisti, i commentatori, i politici, la gente comune lo sono? Di certo lo sono nell’avvallare l’idea che una persona che ha attraversato un’esperienza di sofferenza mentale sia di per sé labile di mente, priva di intelligenza, pericolosa, ovviamente incapace di intendere e volere. Di certo lo sono nell’archiviare, con sentenza definitiva, la questione della responsabilità facendola scivolare dietro la presunta insanità mentale. Concetto dubbio proprio per l’ imbarazzante giudizio di valore che traduce. Di certo lo sono nel dimenticare, d’un sol colpo, che da quarant’anni in Italia migliaia di persone che ne soffrono hanno riacquisito i diritti di cittadinanza proprio perché non vi alcuna evidenza scientifica del nesso tra sofferenza mentale, deficit mentale, inguaribilità e pericolosità.

Nel dolore- fisico o mentale che sia- ciascuno di noi reagisce a suo modo, a sua scelta. C’è un margine di libertà che rimane comunque, che scandisce la differenza tra le vite, le direzioni che finiscono per prendere. Le ragioni private sono un’altra cosa e non dovrebbero interessare le cronache. Le nostre ragioni- di noi come comunità- dovrebbero invece interessare tutti. La violenza di tutto quello che è stato detto e urlato in questi giorni, ai danni di quanti soffrono di un disturbo mentale da parte di chi non ne soffre non interrogherà nessuno. Nessuno chiederà loro la cartella clinica o di sogni frustrati per dar ragione a tutto questo. Nessuno si scuserà con quanti soffrono di disagio mentale e con le loro famiglie perché nessuno avvertirà di dover rispondere di ciò che dice. I fatti importanti accadono altrove.

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