La posizione del Club Spdc No Restraint per prevenire i rischi cui sono esposti gli operatori della salute mentale
La morte della collega Barbara Capovani ci dice della inadeguatezza della prevenzione dei comportamenti pericolosi connessi alla malattia mentale.
Si inserisce in una catena di notizie drammatiche che riguardano persone con problemi di salute mentale.
Ad Este un uomo, che aveva minacciato le assistenti sociali, muore 48 ore dopo che è stato ricoverato in psichiatria (12 aprile) ; nel vicentino un uomo, da in escandescenze, sottrae la pistola ad uno dei carabinieri intervenuti, ferisce un vigile urbano e poi viene ucciso; (23 aprile); la Garante delle persone private della libertà della Sardegna denuncia la segregazione cui è sottoposto il signor Bruno, che vive da anni con le mani legate ed il volto rinchiuso da una maschera (14 aprile); una inchiesta giornalistica documenta i metodi violenti in uso presso la comunità Shalom nel bresciano (13 aprile).
Per gli operatori della salute non è di nessun aiuto pratico sapere che ex post vi sarà una giusta punizione del colpevole del reato. A loro interessa che il prossimo reato non accada. Gli operatori della salute mentale sono consapevoli del fatto che il loro lavoro non può che svolgersi a contatto con le persone che hanno problemi di salute mentale. E’ però ben diverso se questo contatto assolve a finalità di cura o viene piegato impropriamente a compiti di custodia e controllo sociale, che squalificandone il lavoro di cura li espone a a rischi che non dovrebbero competere loro.
Se c’è una differenza tra il manicomio e l’attività di cura della salute mentale sta nel fatto che in questo secondo caso il benessere degli operatori e quello dei pazienti si alimentano a vicenda. Crescono tanto la fiducia reciproca che la condivisione della responsabilità. Il paradigma della salute mentale per la prevenzione e la presa in carico trova evidenza in una miriade di esperienze e buone pratiche. Ne scrive Saraceno in “Innovazione in salute mentale nel mondo”, constatando purtroppo la difficoltà in cui tali pratiche versano proprio in Italia, dove quell’approccio si può dire sia nato.
L’impoverimento dei servizi italiani può essere descritto da vari punti di vista. Perdita di risorse, perdita di cultura, perdita di prestigio ed attrattiva, perdita di autonomia. E’ un problema davvero serio che non può essere risolto sposando teorie complottiste (è responsabilità di un gruppo minoritario ma molto potente di psichiatri/antipsichiatri) né sfruttandolo a fini politici (occorre una legislazione meno permissiva).
La morte di Barbara Capovani va onorata riportando la psichiatria a pieno titolo nell’ambito della salute. Chi di dovere dia un segnale forte in questo senso, richiamando tutte le forze dell’ordine a svolgere il proprio ruolo anche quando l’ordine pubblico è turbato da persone con problemi di salute mentale ed a farlo con professionalità.
Tale chiarezza porterà anche a considerare diversamente la cosiddetta “posizione di garanzia” che appartiene agli operatori sanitari, ma solo e limitatamente alle competenze relative alla prevenzione e alla diagnosi, cura e riabilitazione delle malattie e non può essere estesa a funzioni di tutela dell’ordine pubblico per le quali non si ha né il ruolo né la competenza.
La separazione tra cura e custodia non potrà dirsi ultimata senza una modifica delle norme sulla impunibilità per vizio totale o parziale di mente (art 88 e 89 CP). Come si sa tale norma risale ancora al codice Rocco (1930) ma non trova più alcuna giustificazione né sul versante delle scienze cognitive né in quello del diritto. Il riconoscimento della piena dignità del malato di mente anche attraverso l’attribuzione della responsabilità dei propri atti deve portare alla eliminazione dal codice penale della non imputabilità per malattia mentale. E’ questo il cordone ombelicale che lega la psichiatria alla funzione di custodia e controllo. Va tagliato. Chi giudica non può essere chi cura. E tanto meno a quest’ultimo può essere affidata l’esecuzione della pena. Né si può irrogare la sofferenza della malattia come surrogato della espiazione della colpa. Non si può fare giustizia inibendo il diritto alla salute.
La separazione tra cura e custodia è condizione necessaria perché possa essere invertito il processo di impoverimento dei servizi per la salute mentale. In modo che i nuovi urgenti investimenti vadano nella direzione corretta.
C’è stato un tempo in cui l’articolazione del dipartimento salute mentale lungo tutti i livelli d’assistenza, dal domicilio all’ospedale, passando per centri di salute mentale, centri e residenze riabilitativi, era presa a modello per i processi di riorganizzazione ed integrazione dei servizi territoriali con gli ospedali. E’ necessario dislocare nuovamente risorse lungo tutta la filiera. Così come è indispensabile riattivare tutti i nodi della integrazione socio sanitaria. E’ necessario che ciascuna rete dipartimentale garantisca con tempestività una effettiva continuità di presa in carico, avendo una dimensione adeguata ad una effettiva integrazione con quanto è presente nel singolo contesto territoriale. I mega dipartimenti con un bacino d’utenza di milioni di abitanti non sono adatti e vanno riportati a dimensioni “umane”.
Siamo consapevoli che i processi di reclutamento e formazione degli operatori richiedono tempi adeguati, tuttavia la direzione deve essere indicata immediatamente : il campo della salute mentale appartiene a pieno titolo al Servizio Sanitario Pubblico. Così che alla salute mentale siano destinate quote significative del Fondo Sanitario e dei fondi del PNRR, dando effettività allo slogan non c’è salute senza salute mentale.
Questo ci sembra l’unico modo per prevenire i rischi cui sono esposti gli operatori della salute mentale.
Giovanni Rossi
Presidente Club Spdc No Restraint