Detenzioni mascherate
di Enrico Di Croce
Matteo arriva in comunità in ambulanza, accompagnato dai carabinieri. Proviene dal Spdc, il reparto psichiatrico dell’ospedale a circa un’ora e mezza di strada. Prima di partire ha assunto una terapia per il viaggio ed è così sedato che non riesce a stare in piedi: meglio accompagnarlo in stanza con la barella. Appena messo a letto si riaddormenta come un sasso.
Al risveglio gli sarà difficile capire dove si trova. Il luogo in cui è stato “tradotto” è per lui completamente sconosciuto, perché una visita preliminare di conoscenza reciproca in comunità non è stata autorizzata dal magistrato. D’altra parte anche i medici del Spdc sembravano considerarla una inutile perdita di tempo, con la fame di posti letto che c’è. Tre giorni prima due operatori della struttura erano andati a conoscerlo in reparto, ma Matteo non aveva voluto saperne; niente più comunità, non se ne parla, e giù insulti.
Il fatto è che Matteo non ha scelta. Il magistrato ha disposto la misura di sicurezza della libertà vigilata “con obbligo di residenza in struttura residenziale”; una dettagliata ordinanza spiega che è tenuto ad assumere le terapie, a seguire tutte le indicazioni dei curanti, a non allontanarsi dalla comunità se non accompagnato dagli operatori, a cui è “affidato” e che devono vigilare sui suoi comportamenti.
Non c’è dubbio che abbia commesso un reato. E’ tornato a vessare l’anziano padre per avere denaro da spendere in cocaina, da cui è dipendente da molto tempo. Anni di permanenza in precedenti strutture, note per un’impostazione molto rigida, non hanno evidentemente risolto il problema; anche perché, dopo la dimissione, la presa in carico territoriale standard prevede una terapia depot mensile, un esame urine e dieci minuti di colloquio la settimana, quando gli operatori non sono impegnati altrove (guardie, copertura di altri ambulatori, adesso anche turnazioni al centro vaccini).
La sua dipendenza, la sua grave psicosi, le carenze dei servizi territoriali, non sono una giustificazione per comportamenti inaccettabili. Ha sbagliato e deve pagare. Ma in che modo?
Il nuovo medico del centro di salute mentale pensava che sarebbe stata utile una misura cautelare come quelle previste per qualunque cittadino; tipo il divieto di avvicinamento alla persona offesa (Dapo). Il padre, incapace di difendersi da solo, avrebbe ricevuto la necessaria tutela e a Matteo sarebbe giunto un messaggio molto chiaro: esistono dei limiti, devi rispettare la legge come tutti, non ti è permesso fare del male a chi ti vuole bene. Al tempo stesso avrebbe forse percepito la proposta di un percorso di cura più intensivo e complesso (residenziale o no) come un’alternativa alla pena e non come la pena stessa.
Ma il Pubblico Ministero non ha voluto sentire ragioni. Matteo è uno “psichiatrico noto”, conosciuto e seguito da anni, non c’è nemmeno bisogno di una perizia per stabilire che sia incapace di intendere e volere e socialmente pericoloso. A lui non si possono applicare le misure cautelari previste per le persone normali. L’unica possibilità è una misura di sicurezza provvisoria, la soluzione apposita per i reati dei matti.
Anche gli operatori del territorio, che lo conoscono da molti anni, ormai la pensano così: con Matteo è inutile parlare, negoziare. Il suo nuovo curante si illude, è traviato da vecchie ideologie. Invece ha ragione il magistrato: l’unica è obbligarlo a curarsi, a rimanere in un posto dove sia controllato, assuma le medicine, non abbia accesso alle droghe.
E il futuro? Beh, ci si penserà quando scadranno i termini previsti per la permanenza in struttura residenziale (due, tre anni) E finché c’è di mezzo il giudice, la misura di sicurezza per pericolosità sociale, non sarà complicato ottenere una deroga..
Episodi come questo capitano più o meno tutti i giorni, in tutta Italia. Molti sembrano consideralo normale: una nuova normalità per qualcuno benvenuta, dopo anni di inutili ideologie e pretese utopistiche (tipo che i malati psichiatrici siano cittadini come gli altri, che possano dialogare, scegliere, entrare il relazione, stabilire alleanze terapeutiche..); per altri spaventosa ma inevitabile e incontrollabile, come i terremoti o le trombe d’aria.
Noi, in questa sede ci limitiamo a sottolineare due questioni, su cui ci pare sia carente la riflessione e il dibattito, anche fra gli addetti ai lavori più sensibili e ancora disponibili alla lotta:
- Se la libertà vigilata è una misura di sicurezza non detentiva, come è possibile che venga eseguita, talvolta ma non di rado, nel modo descritto: prescindendo da qualunque contratto terapeutico, con accompagnamenti coatti da parte delle forze dell’ordine; in luoghi magari presidiati da cancelli chiusi, sbarre e telecamere, da cui i pazienti non possono allontanarsi; affidati a operatori sanitari di cui è prevista esplicitamente una funzione di sorveglianza e custodia? Se questo dispositivo è “non detentivo”, in cosa si differenzia da quello detentivo? Ovvero, se questa modalità è alternativa burocraticamente alla Rems, in che termini lo è dal punto di vista sostanziale? Se non nella disponibilità potenziale di “posti”, decine di volte superiore?
- Le misure di sicurezza non detentive, quando sono eseguite in questo modo, in cosa si differenziano dai “trattamenti sanitari obbligatori prolungati”, presso strutture residenziali, a tempo sostanzialmente indeterminato, che i contestatori della legge 180 propongono da quarantaquattro anni?
In altri termini la battaglia contro l’ampliamento dei posti in Rems rischia di essere assolutamente insufficiente e fuorviante, se non si dedicherà una parallela attenzione alle misure di sicurezza non detentive, alle modalità con cui vengono disposte ed eseguite: troppo spesso distinte da quelle detentive solo in apparenza.
Tutti conosciamo le ottime ragioni per cui la competenza gestionale delle Rems è stata affidata al sistema sanitario anziché a quello giudiziario. Rimane il fatto che questa scelta ha restituito ex lege ai sanitari la responsabilità esclusiva di misure detentive e quindi, esplicitamente, quella funzione autonoma di controllo della pericolosità sociale dei pazienti che la legge 180 aveva superato.
Il rischio molto concreto è che torni a prevalere, per estensione, anche fuori dalle Rems, il paradigma del controllo-custodia da parte degli operatori sanitari e dell’incapacità-deresponsabilizzazione come condizione naturale dei pazienti gravi.