I LUOGHI DELLA CURA

La malattia tra parentesi

Le idee, gli interrogativi, le pratiche che sostennero il lavoro di apertura di Franco Basaglia nell’ospedale psichiatrico a Gorizia, di Carlo Manuali a Perugia, di Sergio Piro a Materdomini, in provincia di Salerno, avviarono, a partire dai primi anni ’60, una stagione di straordinari cambiamenti.

Era il 1968 quando il governo di centro sinistra sulla spinta di quelle esperienze varò la “legge Mariotti”, che omologava il manicomio all’ospedale civile, introduceva il ricovero volontario, avviava un processo di radicale cambiamento legislativo che si concluderà dieci anni dopo.

Il cambiamento era sostenuto da scelte di campo e pratiche concrete. Le porte aperte, la parola restituita, l’ingresso nel mondo reale animarono la paziente “lunga marcia attraverso le istituzioni” che quella impensabile apertura aveva tumultuosamente avviato.

Basaglia quando entra per la prima volta nel manicomio di Gorizia, di fronte alla violenza e all’orrore che scopre è costretto a chiedersi angosciato «che cos’è la psichiatria?» . Da qui l’irreparabile rottura del paradigma psichiatrico, del modello manicomiale. Dopo quasi duecento anni, per la prima volta dalla sua nascita il manicomio, le culture e le pratiche della psichiatria vengono toccate alle radici. È un capovolgimento ormai irreversibile: “il malato e non la malattia”.

I malati di mente, gli internati, i senza diritto, i soggetti deboli diventano cittadini. Entrano sulla scena con la loro singolarità, la diversità e i bisogni emergono per quello che sono, non più col filtro della malattia. “Messa tra parentesi la malattia”, si scopriva la possibilità di vedere la malattia stessa ora in relazione alle persone e alla loro storia. Persone che faticosamente guadagnano margini più ampi di libertà. La libertà intesa come possibilità di desiderare, di scoprire i propri sentimenti, di stare nelle relazioni. Di rientrare nel contratto sociale, di riappropriarsi della cittadinanza come condizione irrinunciabile per affrontare la fatica di attraversarla e costruire le infinite e minime declinazioni per renderla accessibile.

La legge 180 non è altro che questo. Non è più lo stato che interna, che interdice per salvaguardare l’ordine e la morale; non più il malato di mente «pericoloso per sé e per gli altri e di pubblico scandalo», ma una persona bisognosa di cure. Un cittadino cui lo stato deve garantire, e rendere esigibile, un fondamentale diritto costituzionale.

Cambiamenti legislativi, culturali, istituzionali hanno restituito la possibilità ai malati di mente di sperare di rimontare il corso delle proprie esistenze, perfino di guarire.

Entrano in scena i soggetti

Da quel momento il campo del lavoro terapeutico è davvero cambiato. Esistono oggi associazioni di persone che hanno vissuto l’esperienza del disturbo mentale, che rivendicano la propria storia, raccontano le loro svolte, vogliono vivere malgrado la malattia; sono presenti sulla scena associazioni di familiari che fino all’altro ieri erano condannati alla vergogna, all’isolamento, al silenzio, a sentirsi colpevoli.

Se si pensa alla grande esplosione italiana della cooperazione sociale si scoprono le molteplici opportunità di cui dispongono oggi le persone con disturbo mentale. La cooperativa sociale come luogo per formarsi, per entrare nel mondo del lavoro, per riprendere un ruolo sociale e un posto in famiglia. Qui si incontrano uomini e donne che lavorano, che guidano l’automobile, che hanno figli, che vivono con serenità nella loro famiglia, che si scommettono quotidianamente nella normalità e nella fatica delle relazioni.

La legge, malgrado ostinate resistenze e un percorso in molte regioni lento e faticoso ha dimostrato che è possibile cambiare e in tanti luoghi si sono realizzate profonde trasformazioni e radicate le buone pratiche. Ma non a tutti i cittadini del nostro paese e non dovunque è garantita la possibilità.

Le mura della medicalizzazione

Benché l’inclusione sociale sia una priorità per tutti i paesi europei e la legge italiana abbia aperto spiragli di formidabili possibilità, persistono le cattive pratiche: scandalosi abbandoni, inspiegabili violenze, sottrazioni, abusi. Cattive pratiche che oggi è possibile svelare grazie al cambiamento di scena prodotto proprio dalla legge.

Trent’anni dopo, in altri termini, con in campo esperienze, competenze e risorse, il problema rimane: che cosa si fa per permettere alle persone di vivere veramente le possibilità che ora sono alla loro portata?

Si fa poco. Le persone rischiano di nuovo di essere rinchiuse dentro mura ancora più spesse di quelle del manicomio. Sono le mura costruite dalla forza del modello medico e dal ritorno prepotente di una psichiatria che vede solo malattia, che fonda la sua credibilità sulla promessa della sicurezza e dell’ordine, sull’industria del farmaco, su fondamenti disciplinari quanto mai incerti e controversi. Questa psichiatria è tornata nei servizi psichiatrici di diagnosi e cura ospedalieri blindati, nelle affollate e immobili strutture residenziali, in comunità senza tempo che si dicono terapeutiche e che si situano fuori dal mondo delle relazioni, nei Centri di salute mentale vuoti e ridotti a miseri ambulatori. È tornata con la falsa promessa della medicina, alleata alle psicologie più svariate, con la rinnovata chimera del farmaco e in alcune parti d’Italia, poche per fortuna, dell’elettroshock.

Non a caso le ultime proposte di modifica della legge 180 si muovono in questa direzione. Si argomenta, per esempio, che l’approccio definito spontaneistico alla malattia mentale determinato dalla riforma deve lasciare il posto a un approccio che faccia appello alle certezze del modello medico-scientifico. Propongono adeguate strutture di cura “ad alta protezione” e procedura più restrittive, più rapide e meno garantite di obbligatorietà alla cura. La malattia mentale si definisce come disturbo grave, con poche speranze di guarigione, fonte di disagio in famiglia e nella società, potenzialmente pericolosa, da trattare in unità ospedaliere e in residenze protette. L’invalidazione totale della persona sofferente nelle sue capacità cognitive, affettive e sociali consegue inevitabilmente .

Preoccupano le culture e le pratiche che derivano da questi modelli, psicologici o biologici che siano. I farmaci, per esempio, leniscono il dolore, attenuano i sintomi, aiutano a stare nelle relazioni, sostengono percorsi di ripresa . Ma quando il “modello farmacologico” pretende di spiegare le emozioni, la creatività, i sentimenti, le passioni, le paure, sottrae significato, riduce. Medicalizza la vita. I farmaci finiscono per impedire allo psichiatra di vedere la persona che ha davanti. Basaglia amava ricordare le parole di Ernst Toller. Il drammaturgo tedesco, morto suicida a 40 anni dopo l’esperienza del manicomio, aveva scritto che «lo psichiatra è un uomo che ha occhi ciechi e orecchie sorde» .

Servizi diffusi e cattive pratiche

Malgrado la persistenza di queste culture la riforma ha fatto il suo corso (vedi il paragrafo sullo stato dell’arte). Le ricerche condotte negli ultimi 7 anni dall’Istituto Superiore della Sanità (ISS) sulle strutture residenziali, sui Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC) e sulle cliniche private e sui Centri di salute mentale (CSM) sembrano confermare clamorosamente il percorso positivo di cambiamento avviato nel ’78. Le indicazioni del secondo progetto obiettivo nazionale per la tutela della salute mentale sono state in buona misura realizzate, i Dipartimenti e le strutture per la salute mentale sono diffusi in tutte le regioni, sono presenti 285 servizi ospedalieri per acuti (SPDC) con circa 3.000 posti letto; strutture residenziali in tutto il territorio nazionale che ospitano circa 17.000 persone. Anche il dato relativo alla presenza dei CSM sembra essere confortante: un CSM ogni 80.000 abitanti, 14.000 addetti, orari d’apertura che sembrano sempre più dilatarsi .

Ma come vengono utilizzati servizi e programmi? Come si dispongono all’accoglienza? Come e quanto sono attraversabili?

Il problema ancora una volta sono le pratiche.

Forse non tutti sanno che 200 Servizi di diagnosi e cura su i 285 totali dichiarano di attuare la contenzione meccanica e di usare un camerino di isolamento. Evitabili e inutili maltrattamenti se si pensa che i rimanenti 85 SPDC dichiarano di non si ricorre mai alla contenzione.

Dai dati della più recente ricerca (2003) condotta dall’Istituto Superiore di Sanità risulta che nell’unità di tempo, nei 3 giorni fissati per la rilevazione sul campo, in 3 su 10 degli SPDC visitati, c’era almeno una persona legata. Fino a 4 contemporaneamente in alcuni. Gli uomini molto di più che le donne, gli immigrati più dei locali. In uno a essere legata era una ragazzina di 14 anni. Dimenticati quotidiani crimini di pace che svaniscono nel grigiore dei luoghi comuni. Nei reparti di neuropsichiatria infantile, a Monza come a Torino per esempio, bambini tra i 9 e 14 anni vengono legati al letto e trattati con dosi eroiche di psicofarmaci. Malgrado la disponibilità ormai diffusissima di educatori, accompagnatori, volontari.

Soltanto negli ultimi 2 anni almeno 5 persone sono morte legate ai letti a causa dell’immobilità dovuta alla contenzione e delle dosi massicce di psicofarmaci. In ricche, civili e insospettabili città, al sud come al nord.

Tutti affermano che bisogna abolire la contenzione ma sono costretti, dicono loro malgrado, dall’incontenibilità del paziente, dalle carenze organizzative, dalla povertà delle risorse a calpestare la dignità della persona e l’inviolabilità del suo corpo. Quasi che un gesto così rischioso, antiterapeutico e dannoso si potesse giustificare come stato di necessità permanente ed essere infine accettato come routinario atto medico.

In tutti i DSM dove i servizi ospedalieri di diagnosi e cura lavorano a porte chiuse, sono sovraffollati ed è più che evidente il fenomeno della “porta girevole”, sono carenti i servizi territoriali e aperti per fasce orarie insufficienti. Cresce la domanda di residenze dove collocare i “nuovi cronici”.

La persistenza del modello medico che vede da una parte la “crisi” e dall’altra la “cronicità”, condiziona così la crescita dei servizi di salute mentale, delle comunità terapeutiche, delle cooperative sociali. La crisi si colloca in ospedale, negli SPDC o, come in alcune regioni, in cliniche private. La cronicità sedimenta nelle strutture residenziali, negli istituti pubblici e religiosi, nei centri diurni infantilizzanti, nelle pratiche assistenzialiste di fragili cooperative sociali.

La miseria vergognosa dell’istituto Giovanni XXIII con più di 300 ricoverati a Serra d’Aiello in Calabria è solo la più drammatica evidenza di un sommerso invisibile . E invisibili sembrano gli istituti e la pletora delle residenze nel sistema lombardo coi suoi diagnosi e cura blindati dal Niguarda di Milano, a Bergamo, a Brescia. Solo Mantova lavora a porte aperte e dimostra che è possibile fare diversamente, anche in Lombardia. E invisibili sono le cosiddette comunità riabilitative e terapeutiche in Sicilia con 40 posti letto. Molte sono gestite dal privato mercantile. Solo a Catania si contano più di 700 posti in comunità di questo tipo. Invisibile, fuori controllo, la quantità di denaro pubblico che viene impegnato in questi affari. Le rette vengono pagate per letti occupati, le persone non vengono mai dimesse. Almeno fino a quando si presenti un altro da ricoverare. Invisibili le condizioni, in genere tristissime e senza futuro, di migliaia di persone che in questi luoghi sono costrette.

Il territorio disabitato e il “manicomio rete”

Tra crisi e cronicità si crea il vuoto, un abisso. Come se la vita delle persone non potesse esistere al di fuori di queste definizioni. “Acuto e cronico” finiscono per determinare i percorsi di cura e servizi frammentati e incoerenti. I Centri di salute mentale pensati come luoghi privilegiati della presa in carico territoriale restano vuoti, le comunità residenziali diventano terminali del fallimento terapeutico. Le cooperative luoghi di intrattenimento.

Mancate risposte, discontinuità, assenze, contenzioni, costringono progressivamente le persone verso le periferie delle nostre città, del nostro sguardo e della nostra anima. E una volta messe al margine attraverso passaggi che pure sono evidenti e ricostruibili, fanno fatica a rimontare. Così dal diagnosi e cura, all’associazione di volontariato, al carcere, alla cooperativa sociale, all’ambulatorio, alla comunità residenziale si costruisce un circuito senza fine. Questi passaggi cominciano da un punto qualsiasi del circuito, incontrano fragili attenzioni, frammentarie prese in carico, rotture e ricoveri, isolamento e trasgressioni, stazioni ferroviarie e stazioni di polizia, servizi ambulatoriali territoriali trasparenti, incapaci di trattenere, servizi sociali burocratizzati. Ogni stazione di questo circuito offre una risposta relativa alla sua competenza, una risposta parziale. Tutti rispondono per un pezzo. Il problema, il bisogno complessivo della persona resta inascoltato. Tutti hanno assolto al loro compito, nessuno ha mancato. La persona con la sua domanda continua a girare sempre più muovendo verso la periferia.

Il territorio abitato e le “opportunità” della rete

Per fortuna oggi si possono raccontare molte storie differenti. Storie di persone, sempre più numerose, che malgrado la severità della loro malattia mai hanno subito restrizioni e mortificazioni. Hanno potuto attraversare Centri di salute mentale orientati alla guarigione, capaci di accogliere e accompagnare nel percorso di ripresa fino a trovare la propria strada. Alcune esperienze esemplari e pratiche diffuse in tutto il territorio, hanno dimostrato che è possibile non fare danni e costruire percorsi terapeutici efficaci e nuove opportunità di partecipazione per le persone, i familiari, i cittadini coinvolti .

La scelta che privilegia il territorio, le reti, la prossimità, la domiciliarità contrasta di fatto il modello medico. Anche la rottura relazionale, la crisi dolorosa, quando non espulsa dal contesto, assume il significato di un evento storico che ritorna sempre alla storia del soggetto. Il Centro di salute mentale (aperto 24h), non più l’ospedale (crisi) e le residenze (cronicità), diventa la struttura organizzativa forte che orienta la domanda e sostiene il lavoro terapeutico-riabilitativo a fianco della vita reale delle persone. In molte regioni ormai sono presenti reti di servizi di salute mentale ben articolati e integrati che operano sulle 24h, 7 giorni su 7 .

Le esperienze di questi anni hanno mostrato quanto la malattia, la clinica in una parola, si mette alla prova proprio nella dimensione territoriale. Il lavoro che bisogna fare per incontrare le persone si situa proprio in quello spazio aspro e tesissimo tra la clinica e il territorio, i luoghi delle persone, i contesti, le relazioni.

Quanto più si riconosce il territorio come luogo del lavoro terapeutico, della riabilitazione, dell’inclusione, tanto più si colloca in questa dimensione la clinica e la malattia assume una diversa visibilità. Non può che essere in relazione alla persona.

Si scopre il bisogno di inventare “istituzioni” capaci di garantire la permanenza delle persone nel contratto sociale e fronteggiare il rischio di marginalizzazione. Sistemi di servizi e dislocazioni di risorse in grado di reggere alle nuove scommesse: la “presa in carico”, la continuità delle cure, il sostegno alla famiglia, i percorsi di formazione e di inserimento lavorativo, la cooperazione sociale, il sostegno a tutte le forme dell’abitare. I percorsi di guarigione.

Luoghi di cura, luoghi di transito

Il Centro di salute mentale laddove ha assunto una funzione forte e ordinativa, tende a diventare un luogo di transito, una piazza, un mercato. Un luogo intenzionato a favorire lo scambio, l’incontro, il riconoscimento reciproco. Ad accogliere con cura singolare. Un luogo che vuole vedersi abitato non (soltanto) dai “folli”. Un luogo che progetta, costruisce e cura un “dentro” senza mai perdere di vista il “fuori”. Tra il Centro di salute mentale e il territorio si disegna una soglia che definisce lo spazio dell’incontro, dell’ascolto, dell’aiuto, della terapia. Il Centro come passaggio, confine, attraversamento che si dispone instancabilmente tra lo star bene e lo star male, tra la normalità e la anormalità, tra il regolare e l’irregolare, tra il singolo e il gruppo, tra le relazioni plurali e la riflessione singolare, tra gli spazi dell’ozio e gli spazi dell’attività.

Un luogo che contrasta il rischio della sottomissione e dell’assoggettamento così presente quando ricorre l’esperienza della malattia. Un luogo dove le persone, senza la paura del confine che si chiude alle loro spalle, possono entrare per dire il proprio male, condividerlo. Un confine aperto che garantisce sempre il ritorno .

In questi anni è stato possibile dimostrare che “il folle” può essere curato in un altro modo. I Centri di salute mentale, lì dove sono attivi e presenti quotidianamente a sostegno della vita delle persone; le cooperative sociali, lì dove veramente sono in grado di stare sul mercato e produrre lavoro; le associazioni di persone con disturbo mentale e dei familiari, lì dove veramente alimentano protagonismo e partecipazione; i luoghi dell’abitare ed i laboratori, lì dove davvero si coltiva il valore della relazione, la bellezza degli spazi e degli oggetti, la qualità dei lavori e delle produzioni dimostrano che è possibile curare senza contenzioni, con le porte aperte, con programmi riabilitativi personalizzati, con percorsi di formazione e di inserimento lavorativi reali, con il coinvolgimento nel lavoro terapeutico dei familiari, con il sostegno puntuale, anche economico, della vita quotidiana, con la possibilità per le persone di abitare diverse e plurali identità. Con la possibilità di guarire.

Si può fare

Tutti sanno che si può fare. Il problema è che nessuno sembra interessato a conoscere, veramente, come si può curare in un altro modo.

Ignac Semmelweis diventerà matto. Egli ha intuito che le puerpere muoiono di più in ospedale che a casa propria. La moria di giovani donne è drammatica nell’ospedale di Vienna. Accerta che i medici che assistono le partorienti non si lavano le mani e si avvicinano a esse dopo essere stati in sala settoria. Con una dimostrazione rudimentale ma molto efficace cerca di dire ai suoi colleghi che bisogna lavarsi le mani, magari con un po’ di calce. Nel suo reparto le donne non muoiono. I grandi luminari viennesi non possono credere alle dimostrazioni del medico di Budapest. Non ci sono le evidenze dicono. Si rifiutano di riconoscere un altro modo per affrontare la moria delle puerpere.

Semmelweis insiste, viene cacciato, torna a Budapest e muore in manicomio. Dopo la sua morte la sua scoperta viene riconosciuta.

Oggi abbiamo più che mai bisogno di un Semmelweis e con testardaggine rischiare di diventare matti per affermare che “un altro modo” di curare è possibile.

Peppe Dell’Acqua

(tratto da Quaderni di Italiani Europei, 2/2009)

1 Comment

  1. Leda Cossu

    … “un altro modo” di curare è possibile.
    Prendo spunto dallo scritto di Dell’Acqua per gettare un sasso nell’acqua delle “Buone e Cattive Pratiche”.
    Quando la persona diventa un problema da gestire, anzichè un essere umano da riavviare nel gioco della vita.. non è più una persona, nasce così un manicomio dalla cattiva pratica di gestire un problema, anziché promuovere una persona. Dov’è finita la parola riabilitazione? N
    Come un locomotore la 180 ha trascinato con se una civiltà differente dal manicomio non solo per i sofferenti mentali, ma per vecchi, disabili, malati di povertà: strutture piccole, inclusive, disseminate nei centri cittadini, non accentrati. Gruppo Appartamento, o Comunità, o Albergo, o..
    Genitori di disabili, famigliari di anziani, persone di buona volontà oggi possono aggregarsi (e spesso lo fanno) per costruire case, non manicomi, con norme nazionali e regionali nate grazie alla 180, a Basaglia e a quell’appassionata generazione che ha accettato la scommessa di guardare all’essere umano come ad un viaggiatore che transita il mondo, piuttosto che destinato ad un confine, confinato.
    Una viaggiatore non è un fotogramma statico, i paesaggi cambiano se non lo costringi ad un luogo, un letto, quattro mura. Ma la cultura corrente è quella del confinare ogni problema ad un luogo, lontano. Ciò che vivo praticamente sempre nei luoghi di cura e di vita degli anziani istituzionalizzati, case di riposo o ospedali che siano è che non si investe sulla persona, anzi, più ferma resta meglio è. Nulla interrompe la vita fra un pasto e l’altro, fra una pratica igienica e l’altra, tutte rigorosamente eseguite “sulla” persona, anziché “con” la persona. Manca totalmente la cultura riabilitativa, non ci si chiede come fare questo e quest’altro “con” la partecipazione dell’anziano. “Non collaborante” si dice, si scrive e si agisce di conseguenza.
    Ma la realtà è un’altra, ogni qualvolta mi siedo davanti ad una persona, chiedendole se vuole muoversi, spostarsi, camminare.. mettendomi in relazione con lei, in pochi minuti succede qualcosa, lei concentra lo sguardo su di me e nell’ora successiva avviene di tutto, minimo riesci a sederla sul letto se prima era stesa, a mettersi in piedi, a fare due passi a sedersi in bagno.. rendendo così inutile il pannolone, il catetere. Scompaiono fasce contenitive, inutili pedalini della sedia a rotelle che servono solo a mantenere flesse le gambe e rendere possibile lo spostamento autonomo della carrozzina. Il suo panorama cambia: dal confino di una stanza al corridoio, al giardino, al bar e i pensieri tornano ad abitare il corpo: la persona torna in se, orienta in modo armonico il corpo, lo sguardo e da “non collaborante” torna ad essere persona. E’ così pericoloso, costoso, innaccettabile orientare il busness di queste istituzioni costosissime verso “abitazioni civili”? Abbiamo costruito mondi chiusi privi di senso, disanimati. E’ impossibile rassegnarsi a queste mostruosità, alla militarizzazione della non autosufficienza.. che poi proprio non autosufficienza non è se la persona cammina, si spoglia e si veste da sola.. con un aiutino, ma occorre un altro modo di vivere l’età anziana: ogni gesto dovrebbe avere in se la cultura riabilitativa, avere un senso, non essere una deprivazione delle facoltà, dei talenti della persona. E gli operatori sanitari? Perché non potrebbero essere a loro volta “soggetti”, organismi multidisciplinari, dialoganti nei differenti ruoli che non escludano (tutti assieme)i bisogni delle persone. Ma quando le persone anziane in una struttura diventano non 10-20… ma minimo 50, 100 se non molte di più quel luogo assume regole rigide, costrittive.. un manicomio.

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