Conferenza nazionale di salute mentale un anno dopo. Della salute mentale non c’è più traccia

di Antonio Luchetti (Merano)

A vent’anni dalla prima Conferenza Nazionale di Salute Mentale, il 25 e il 26 giungo di oramai un anno fa, si tornava in campo uniti per ribadire (come affermava in quell’occasione il ministro della salute Roberto Speranza) che “il disagio mentale nasce nei luoghi di vita e di lavoro delle persone, si cura nelle comunità in cui vivono le persone e con l’apporto delle comunità stesse”.

“La pandemia – aggiungeva Speranza – ci costringe a rompere con il passato, a partire da una lettura profonda dei mutamenti in atto, con concretezza e determinazione, avendo come punto di riferimento solo il benessere delle persone, delle persone con disturbo mentale e delle loro famiglie, delle persone che operano nei servizi di salute mentale e, più in generale, di tutte le persone che vivono nel nostro Paese, perché  la ‘salute mentale’ è un obiettivo che riguarda tutti noi”.

Abbiamo notato nelle sue parole un certo allineamento tra la direzione suggerita da anni dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (solo un mese prima l’OMS aveva pubblicato le Linee guida sui servizi di salute mentale di comunità “promuovere approcci centrati sulla persona e basati sui diritti”) e le affermazioni fatte a più voci da tecnici, politici, utenti e familiari nel corso delle due giornate di conferenza.

Si partiva dai punti critici, in quanto, riconosceva Speranza, “la realtà continua tuttavia a presentare criticità e le persone con disturbi mentali continuano a ricevere risposte non sempre pienamente adeguate. Dobbiamo riconoscere che negli ultimi decenni l’attenzione dedicata alla sofferenza mentale non sempre è stata all’altezza”.

Ma come potevano essere affrontate tali criticità?

Il ministero affermava che “le evidenze scientifiche e le esperienze concrete dimostrano che è possibile organizzare i servizi in modo da assicurare risposte inclusive e partecipate, rispettose dei diritti e capaci di prendersi veramente cura di chi vive condizioni di emarginazione e sofferenza”.

Si trattava (e si tratta) pertanto di “attuare un piano concreto”, e con queste parole il governo si impegnava a rilanciare un piano attuativo nei territori, “prendendo come riferimento la comunità (appunto), la prossimità (nei luoghi di vita delle persone) e la domiciliarità” promuovendo “una robusta integrazione con gli enti locali” innovando “i percorsi formativi” e favorendo “la ricerca sui servizi”, privilegiando un metodo che sia in grado concretamente di “partire dal basso”, garantendo reale “partecipazione dei fruitori dei servizi alle decisioni che li riguardano”.

Tali affermazioni non erano poi cosi nuove ma corrispondevano alle linee tracciate nel DPCM del 12 gennaio del 2017 per la definizione e aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza sanitaria.

È chiaro a questo punto che bisognava andare oltre la retorica per attivare un progetto a partire dalle politiche e riorganizzando i servizi in grado di garantire riposte reali ai bisogni e contrastando culture di semplificazione.

Affermava Benedetto Saraceno, già direttore del Dipartimento di Salute Mentale e delle Dipendenze dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, che “tutti insieme avevamo ragione (…) è un’organizzazione dei servizi basata su un’investimento forte nel – e del – territorio che rappresenta la via regia per la salute mentale e per i diritti di cittadinanza. Welfare e salute sono componenti inseparabili per la costruzione di percorsi per vivere, per opportunità di vita, per promuovere luoghi di socialità e di libertà invece che luoghi separati”.

In tema di Salute Mentale – e molti intervenuti nella corso della conferenza avevano fatto tale restituzione –  l’Italia ha la legge più avanzata del mondo.

Ora a superare, anche solo per un attimo, l’autonomia delle regioni in materia di sanità – responsabile del mancato sviluppo della riforma – e nell’interesse della collettività (non è più accettabile che le risposte dei servizi siano del tutto inadeguate in alcune realtà e fiore all’occhiello in altre) si sarebbe potuto guardare non solo con curiosità, ma per favorirne l’approvazione, la proposta di legge applicativa dalla senatrice Nerina Dirindin, e riproposta nella legislazione successiva dalla senatrice Laura Boldrini che recita nel titolo “Disposizioni in materia di tutela della salute mentale volte all’attuazione e allo sviluppo dei principi di cui alla legge 13 maggio 1978, n.180”, che il Forum salute mentale cerca di riproporre con la campagna “il cantiere di lavoro per trovare una via d’uscita” interpellando partiti e organizzazioni in vista delle elezioni di settembre ( vedi altri articoli del sito)

Questa, all’articolo 1, afferma avere “lo scopo di promuovere e proteggere il pieno godimento dei diritti umani e delle libertà fondamentali delle persone con disagio e disturbo mentali nonché di prevedere misure adeguate a garantire alle persone stesse e alle comunità l’effettivo accesso a una assistenza sanitaria e socio-sanitaria che tenga conto delle loro specifiche esigenze”.

Identifica, dopo aver descritto le finalità e la solida cornice culturale di riferimento, i “principali strumenti deputati al governo dei servizi per la salute mentale”.

Per cui centralità alla comunità, progetti personalizzati (che vertono su inserimento lavorativo, abitativo e sociale), prossimità dei servizi, coinvolgimento di utenti e familiari, identificazione di strumenti e disponibilità di budget (un programma di sviluppo non più pensabile a parità di risorse come sottolineato da Speranza in apertura della conferenza) sarebbero le colonne portanti di un intervento di ristrutturazione adeguato e non più procrastinabile.

Ma al tempo stesso, e qui vorrei riprendere, parafrasando e di nuovo, alcune parole di Benedetto Saraceno: nessun intervento sarà realmente efficace se a questo non sarà affiancato un lavoro di produzione culturale e intellettuale forte in grado di affermare definitivamente l’evidenza che con buone pratiche si vive e che con cattive pratiche si produce solo esclusione e morte.

Per cui a un intervento politico nella realtà, e pratico nelle istituzioni in un processo di costante  di deistituzionalizzazione (non solo di edifici ma di saperi), andrebbe affiancato un processo di smascheramento delle culture di semplificazione in grado di assorbire risorse in ambulatori asfittici, cliniche escludenti, servizi psichiatrici lesivi dei diritti, laboratori che non producono scambi, e formazioni universitarie asettiche distanti dai territori (dove la gente vive e dove viene curata); risorse che andrebbero riconvertite a sostegno di pratiche di libertà.

Questo sarà possibile laddove saremo anche in grado di attraversare conflitti in modo costruttivo, già ce lo ricordava ancora una volta Saraceno, creare reti in grado di incidere sul reale e dialogare con corporazioni che chiudono con monologhi e non sembrano interessate a socializzare potere nell’interesse della comunità tutta.

In quell’occasione il ministro della salute, “coraggioso”, parlava della contenzione meccanica in psichiatria affermando, e promettendo, che si sarebbe giunti all’obiettivo: “entro tre anni contenzione zero”: un anno è passato e per il momento sono rimaste solo affermazioni (e il ministro, con la caduta del governo Draghi, si avvia, alta la probabilità, a essere un ex ministro portando via con sé, negli scatoloni, le proprie parole).

E questo è il rischio di tutte le parole come di tutti i contributi pubblicati qualche giorno fa, dopo un anno, sul sito della Conferenza

(https://www.salute.gov.it/imgs/C_17_EventiStampa_583_0_fileAllegatoIntervista.pdf).

Ancora più probabile, cosa che sta già avvendo in alcune realtà, che l’establishment politico dirotti denaro dal pubblico al privato, ragionando in termini di posti letto, rette e istituzioni invece che di opportunità e diritti di cittadinanza esigibili; di malati sdraiati al posto di persone in piedi, di “amici” arricchiti piuttosto che di comunità ricche.

Come non guardare, a conferma di ciò, e a titolo di esempio, quello che negli ultimi anni è avvenuto nella regione FVG e a Trieste. Uno dei fiori all’occhiello della sanità territoriale smontato pian piano, e con tanta ottusa arroganza, per far spazio alla sanità privata (guardando tra le altre cose a sistemi sanitari ospedalocentrici, vedi quello lombardo, che in tempi di pandemia hanno mostrato tutta la loro defettibilità).

Un anno fa si guardava al PNRR con illusione: finalmente il tempo sembrava essere giunto: sanità territoriale e di prossimità, domiciliare, e di alta qualità, gratuita e per tutti. Diritti dei cittadini rispettati, utenti protagonisti dei propri percorsi di cura, contrasto a vecchie e nuove istituzionalizzazioni (ci era stato mostrato nuovamente che nelle grandi istituzioni le persone più facilmente muoiono) ed eliminazione di pratiche di cura violente, spacciate come terapeutiche.

Oggi temo che, caduto il governo, tutto quello che abbiamo sentito quei due giorni rimarrà solo un bel ricordo, un ricordo di speranza.

Nessun programma politico parlerà di “Salute Mentale” e di “Sanità Territoriale” (ma si di Sanità in senso generico e pericoloso e in futuro forse se non già di pericolosità e psichiatria), o forse mi sbaglio: spero di sbagliarmi.

E tali parole rimarranno parole vuote e continueranno a divorare risorse ospedali, cliniche private, residenze concentrazionarie e grandi istituzioni di letti.

Credo che le parole dovrebbero avere il potere di trasformare, altrimenti sono parole svuotate di senso, morte, propaganda sterile. Possono le parole, che sono ponti tra significanti e significati svuotarsi di senso? Si passerà mai, mi chiedo, dalla politica del parlare a vanvera alla politica del praticamente fare concreto?