Carceri, REMS, SPDC… il fascino discreto della contenzione
di Francesca de Carolis
Alcuni pensieri sulla salute mentale in carcere, che è cosa che a mio parere va oltre la questione delle REMS, le residenze teoricamente destinate alle persone con problemi psichiatrici che hanno commesso reato. Teoricamente, perché se la legge che le ha istituite considera le REMS l’ultima ratio rispetto alla necessità della presa in carico delle strutture sul territorio la realtà è spesso altra, tant’è che alle loro porte blindate premono, in lista d’attesa, anche persone che in carcere si ammalano e si aggravano, fra folli rei e rei folli (distinzione che faccio fatica ad assimilare), e che dovrebbero essere destinati, tutti, a tutt’altri percorsi…
Una pagina che mai andrebbe chiusa perché questa cosa orrenda che è il carcere, rimossa dalla nostra coscienza di bravi cittadini, è luogo, ne sono convinta, dove si sperimenta fin dove si può arrivare nella compressione dei diritti delle persone, a cominciare dal diritto alla salute, nell’indifferenza di chi è fuori. Ed è specchio, purtroppo fedele, delle deformazioni della nostra presunta civiltà, brutture che, ci piaccia o no, tutta la qualificano. Montesquieu insegna…
Quando anni fa ho cominciato ad affacciarmi su questo mondo e ho chiesto a un volontario di lungo corso come funziona la sanità in carcere, la prima risposta è stata: “Ah, quello che non manca mai, qui, sono gli psicofarmaci”. E Francesco Lo Piccolo, fra l’altro direttore di “Voci di dentro”, con immagine fulminante ha parlato del “carrello della felicità”.
Già, perché circa il 70 per cento delle persone detenute assumono psicofarmaci, una percentuale superiore a quella della popolazione libera, più vicina a quella delle aree socialmente ed economicamente più depresse. E questo al di là delle articolazioni delle sezioni particolari aperte per chi ha problemi diciamo più gravi, che pure possono prevedere quella cosa barbara che sono le celle lisce che tanto ricordano i vecchi manicomi (e questo è un orrore del sistema punitivo che vale per tutti).
In carcere, se non ci si entra già malati, ci si ammala, fisicamente e psichicamente, anche se ho letto che qualcuno ha affermato che non ha mai visto nessuno impazzire in carcere. E chissà che si intende per impazzire, quale grado estremo nella scala della sofferenza bisogna raggiungere…
Tre storie per tutte. Vicende diverse, ma tutte facce come di un unico poliedro.
Raffaele Laurenza, entrato in carcere perfettamente sano nel corpo e nella mente. Che finisce (la denuncia è dell’associazione Yairahia) nel carcere di Parma, in una sezione dove è circondato da persone con gravi patologie fisiche e psichiche. Si trova così a vivere in una prigione nella prigione “…sono chiuso, non posso parlare con nessuno gli altri sono malati e anziani”. E così eccolo che deve prendere farmaci mai presi in vita sua, è depresso, manifesta episodi d’ansia, non riesce a frequentare la scuola per “difficoltà nell’attenzione e nella concentrazione”. Solo un mese fa è arrivato il trasferimento, pur chiesto con l’urgenza certificata da perizie psichiatriche fin dal novembre dello scorso anno…
O.D.B., giovane cittadino marocchino in Italia con permesso di soggiorno, in carcere per uno scippo (la carcerazione scatta perché recidivo, alcuni giorni prima aveva rubato un portafoglio). Assolto per “vizio totale di mente”, viene disposto il trasferimento in una REMS per la durata di due anni (e ancora la REMS intesa più che altro come luogo di misura di sicurezza!?), ma poiché non si trova posto, il giovane resta in carcere. E lì rimane, in compagnia delle sue visioni (“dice di essere controllato dagli aeroplani e di poter guarire il Covid coi suoi poteri” ha spiegato all’Agi la sua legale).
Antonio Raddi, 28 anni, morto due anni fa a Torino, morto dopo aver perso 30 chili, tossicodipendente, nessuno aveva creduto al suo malessere. E sì, in carcere questi giovani vengono semplicemente considerati “tossici”, e chissà chi si cura delle loro fragilità. Antonio Raddi, muore non assistito nonostante lamentasse la sua disperazione. “Qua muoio”, diceva… e aveva ragione, lui come tutte le persone nella sua condizione (e sono sempre di più, soprattutto con la pandemia) per le quali sarebbe necessario piuttosto un percorso terapeutico esterno. Portato di quel manifesto di cultura illiberale, come l’ha definita Patrizio Gonnella di Antigone, che è la Fini-Giovanardi.
E poi, e poi… in carcere ci si suicida. Solo nel 2021 sono stati 53 i suicidi consumati, 62 l’anno precedente. Quest’anno siamo già a 30, mentre al 22 marzo risultavano essere 381 le persone detenute, di cui si è accertata una patologia di natura psichica, che dovrebbero essere inquadrati in istituti predisposti per affrontarla, ma sono ancora in “normali” carceri, privi, si denuncia, della necessaria assistenza.
Numeri, raggelanti in sé, ma al di là delle statistiche, proviamo a immaginare volti, a leggervi il riflesso della follia, quella sì, di un sistema che di fatto contraddice e mortifica i suoi stessi dichiarati fini. Il carcere fa ammalare, fa ammalare nel corpo e nella mente, e sicuramente non è e non può essere, a cominciare per la sua struttura che è comunque e sempre luogo d’afflizione, luogo di cura.
A margine, mi sono sempre chiesta, conoscendo persone prigioniere di lunghissime detenzioni e conoscendo le condizioni di vita, a volte inimmaginabili, fra le mura delle nostre prigioni, in quale camicia di forza mentale bisogna infilarsi per non andare in escandescenze ogni giorno, per considerare accettabile, qualsiasi reato si sia commesso, quell’incubo che è la carcerazione senza fine. Da attingere al “carrello della felicità”, forse. Anzi, quasi sicuramente. Ho conosciuto persona che si è molto vantata di non aver fatto mai ricorso agli psicofarmaci per sopravvivere. Mosche rare… ma qui il discorso si allargherebbe troppo.
Ritornando a chi in carcere arriva già malato e a chi vi si ammala…
A monte c’è intanto un problema culturale. A prevalere sembra sia sempre il momento della “sicurezza”, del controllo, della pena rispetto a qualsiasi altro obiettivo (la rieducazione, una reale sicurezza sociale…), mentre i diritti tutti vengono mortificati, compreso quello alla salute e alla salute mentale. Mentre intorno a chi soffre di disturbi mentali si innalza il muro della pericolosità, che è pur sempre una “valutazione”, con tutti i limiti e l’arbitrarietà che a volte questo significa.
E cos’è questa se non violenza inaudita del sistema? Del sistema carcere e del sistema società tutta, che vuole concentrati dietro un mondo a sbarre sia detenuti per fatti-reato sia tutte le fragilità che non vogliamo vedere né affrontare, né tantomeno accogliere, come invece dovremmo. Perché questo è. Basta dare uno sguardo alla fisionomia della popolazione carceraria…
E cosa fare, in quale direzione andare per combattere tutto questo.
Per essere concreti. Intanto, una risposta è anche nella proposta di legge “Disposizioni in materia di salute mentale”, ripresentata in questa legislatura dall’on. Elena Carnevali e dalla senatrice Paola Boldrini, per il rafforzamento delle strutture per la presa in carico sul territorio. Mi sembra molto chiara in proposito se fra l’altro parla di “presa in carico delle persone affette da disturbo mentale che hanno commesso un reato, o che sono a rischio di condanne penali o di misure di sicurezza, o vi sono sottoposte, attraverso programmi terapeutico – riabilitativi individuali, di intensità modulata in rapporto ai bisogni della persona, evitando in prima istanza l’invio alle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS) e assicurando le attività di tutela della salute mentale e di presa in carico dei detenuti e degli internati negli istituti di pena di competenza territoriale”.
Fondamentale, se ne è parlato in queste pagine, è anche la riforma di quella tremenda eredità del codice Rocco che è il concetto di irresponsabilità penale, che continua di fatto a creare per le persone solo prigioni. Riconoscendo piuttosto l’irresponsabilità sociale… del nostro ottuso pensiero.
Ma soprattutto, c’è un problema culturale più ampio e profondo. Dovremmo finirla col pensare che rinchiudere risolva tutto. Dovremmo infine liberarci di questa imperante filosofia delle sbarre (sbarre nelle carceri, nelle REMS, negli SPDC, nei nostri pensieri…). Quando riusciremo finalmente a sottrarci al fascino discreto della contenzione non sarà mai troppo presto…