di Luigi Manconi
da “La Repubblica” del 15 febbraio 2022
Un giovane uomo fugge lungo i campi nei pressi della propria abitazione, a Carmignano di Sant’Urbano, una località tra Padova e Rovigo. È a piedi nudi e indossa solo un paio di boxer. È il 29 luglio del 2015 e Mauro Guerra, questo è il suo nome, morirà a trentadue anni in quel pomeriggio afoso. A ucciderlo è un colpo di pistola che gli trafigge l’addome, esploso da uno dei carabinieri che lo inseguono.
Facciamo un passo indietro. Guerra, laureato in Economia, aveva finito il servizio ausiliare presso l’arma dei Carabinieri e svolgeva un tirocinio professionale per diventare commercialista. Recentemente aveva manifestato qualche segno di sofferenza psichica.
Un giorno di quel luglio si era recato nella caserma dei carabinieri, a trecento metri dalla sua casa, per comunicare l’intenzione di organizzare una manifestazione pubblica. Vi aveva trovato il nuovo comandante, Marco Pegoraro, al quale aveva lasciato una serie di disegni di “ispirazione mistica”. Le parole di Guerra e quelle sue illustrazioni bastarono a convincere Pegoraro della pericolosità dell’uomo.
Da qui la decisione di sottoporre Guerra a un Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO). Senza che ve ne fossero le ragioni oggettive e senza che venisse seguita la procedura necessaria per un provvedimento così invasivo e così limitativo della libertà individuale: ovvero, l’autorizzazione dei sanitari e del sindaco del comune di appartenenza dell’interessato.
Guerra si trova in casa quando due carabinieri gli intimano di recarsi in caserma. Poi si aggiungono numerosi altri militari, che tentano di convincerlo a salire sull’ambulanza, sopraggiunta nel frattempo. Il giovane finge, infine, di accettare il ricovero, per poi darsi alla fuga. Le scene successive sono grottesche e violente: una decina di carabinieri insegue Guerra seminudo che, in ultimo, viene raggiunto. Mentre un anello delle manette gli viene serrato a un polso, Guerra si divincola e colpisce il carabiniere: è allora che un colpo di pistola lo raggiunge, uccidendolo. Solo dopo quaranta minuti, con l’arrivo di un mezzo dell’elisoccorso, verranno tentate le manovre di rianimazione. A distanza di un’ora e mezza, viene dichiarato il decesso. Il successivo esame tossicologico escluderà l’assunzione di ogni tipo di sostanza psicotropa.
Il processo di primo grado per omicidio colposo a carico del maresciallo Pegoraro si conclude nel dicembre del 2018 e ha un esito sconcertante: l’imputato viene assolto, ma le motivazioni della sentenza rappresentano, sotto il profilo giudiziario, una stridente contraddizione rispetto al verdetto. Vi si legge infatti quanto segue: «è da ritenere che tutto l’inseguimento per i campi, nonché i tentativi di immobilizzazione della persona offesa, siano state condotte del tutto arbitrarie e illegittime»; e che è stato messo in atto un «grave tentativo di stordimento del Guerra (in quel momento libero cittadino), attraverso la somministrazione occulta di una dose di tranquillante». Il tutto richiamerebbe la dinamica propria di un sequestro di persona. Detto ciò, con totale sprezzo di qualsivoglia consequenzialità logica e giuridica, l’imputato viene assolto. La procura non ricorre in appello e, di conseguenza, la sentenza è definitiva.
Tuttavia, mentre il processo prosegue sul piano civile, emerge un fatto nuovo. Intervistato da Ivan Grozny Compasso di Padovaoggi.it, il maresciallo Filippo Billeci, fino a tre mesi prima dei fatti comandante della stazione dell’Arma di Carmignano, racconta la sua versione. Quel giorno di luglio venne chiamato a svolgere un’azione di “mediazione”, nella convinzione che si potesse indurre Guerra ad accettare un TSO: «dopo ho scoperto che non c’era», quel TSO. Ancora: «Per me Mauro non era pericoloso, con me non c’erano mai stati problemi in tanti anni»; e «se fosse stato pericoloso, non sarei stato in casa da solo un’ora con lui». Poi la situazione precipita: «Quando Mauro ha visto che non c’era il documento che certificava il TSO, ha detto che lo si poteva lasciare stare e ha preso la strada per i campi»: e «quando si è messo a correre lungo la strada non ha fatto nulla a nessuno». Quindi «c’è stata quella colluttazione con il carabiniere Sarto, poi il collega che è intervenuto, Pegoraro, ha deciso di operare in quella maniera. E quando si opera in quella maniera…». La testimonianza di Billeci, pure acquisita agli atti, non è stata ascoltata in dibattimento perché – dice lo stesso maresciallo – «nessuno ha chiesto la mia versione. Da parte di un tribunale non credo sia la cosa più opportuna».
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