di Francesca De Carolis
Con il testo di Franco Corleone sullo stato di attuazione della legge del 31/5/2014 in ordine al funzionamento delle Rems un contributo di De Carolis e un libro da rileggere.
“Credo che ognuno di noi sorrida quando si dice che la prigione e il manicomio hanno come obiettivi la riabilitazione dei loro ospiti, in realtà, tanto il manicomio come il carcere servono a confinare le devianze dei poveri, a emarginare chi è già escluso dalla società”. Basaglia, nel corso di una delle conferenze che tenne in Brasile sul finire degli anni ’70.
Ed è proprio vero che le carceri sono contemporanei “manicomi”. Come ci ha ricordato l’indecenza di quello che è stato denunciato a proposito della sezione Sestante del carcere di Torino, il reparto di osservazione psichiatrica delle Vallette.
Dei manicomi (forse) ce ne siamo liberati. “Liberarsi della necessità del carcere” sembra ancor più utopico di quanto potesse sembrare, neanche poi tanti decenni fa, l’idea di eliminare i manicomi… perché il controllo sociale che abbiamo consegnato all’istituzione, questa, da qualche parte, in qualche modo, deve pure esercitarlo… Eppure, sono convinta che il pensiero di Basaglia sia applicabile a ogni forma di istituzionalizzazione, a cominciare dal considerare quel margine di libertà che, abbiamo imparato, è condizione indispensabile per qualsiasi incontro terapeutico.
Considerando le persone con malattie mentali che abbiano commesso reato… viene in mente il libro di Virgilio De Mattos, “Una via d’uscita” per la collana 180. Una bella esperienza che nasceva nello stato di Minas Gerais, in quel Brasile che evidentemente di quelle lezioni di Basaglia aveva fatto tesoro.
Parliamo di persone che fino a pochi anni fa ancora in Italia finivano nell’orrore degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Pazzi e criminali, “troppo pazzi per stare in un carcere, troppo criminali per un manicomio civile”, come ha scritto Antigone nel suo ultimo rapporto sulle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Le Rems che agli Opg sono subentrate, “istituzioni totali diverse nel nome, ma del tutto assimilabili sul piano ontologico”, ancora Antigone, che però pure sottolinea le novità su cui fare leva per insistere su buone pratiche che dovrebbero aprire al dialogo costruttivo tra servizi della salute mentale e magistratura. Le Rems non sono nate per essere un contenitore più accettabile degli Opg ma, nella triangolazione Dipartimenti di salute mentale, Magistratura, Servizi sociali, costruire il programma terapeutico riabilitativo individuale anche con l’obiettivo di evitare del tutto la Rems.
Ma se i confini fra intervento sanitario e di ordine pubblico sono piuttosto labili, rimane un nodo, grosso come un macigno: la norma che inchioda il malato di mente che abbia commesso reato alla irresponsabilità penale. Una sorta di maledizione, questa irresponsabilità penale, perché produce una pericolosità da cui nessuna pena ti potrà mondare, essendo irresponsabile, e quindi pericoloso per sempre, per sempre imprigionato. E a quel punto, Opg o Rems che sia…
Ebbene, una via d’uscita da questa trappola è chiaramente indicata dall’interessantissimo esperimento avviato all’inizio di questo millennio a Belo Horizonte, nello stato del Minias Gerais, cui accennavo.
La via d’uscita si chiama “Programma d’attenzione integrale” al paziente giudiziario. Virgilio De Mattos, giurista, docente di criminologia e scienze politiche a Belo Horizonte, ce lo spiega in un libro che, tradotto in Italia nel 2012, ha offerto un contributo importante al dibattito sulle strategie per superare gli OPG, ma che molto anche oggi può insegnare. “Una via d’uscita” è appunto il titolo del libro (pubblicato nella collana 180 archivio critico della salute mentale, edito da AlphaBeta Verlag).
Parole sempre attuali quelle di De Mattos: “Il presente è ancora segregazione: se la psichiatria cammina verso la deistituzionalizzazione, il diritto penale va, al contrario, verso la istituzionalizzazione”.
La via d’uscita è “restituire alla persona la responsabilità, quindi l’essere una persona”.
Senza questo, De Mattos ne è convinto, non è possibile andare da nessuna parte. Perché la pericolosità diventa una malattia senza cura e, continuando a negare attenzione alle persone, nella lunga storia della scomparsa del soggetto nel silenzio, violenza non può che aggiungersi a violenza…
“Il programma d’attenzione integrale” prevede l’intervento congiunto di avvocati, psicologi, psichiatri, assistenti sociali… che si occupano della responsabilizzazione dei pazienti psichiatrici che hanno commesso un reato. Quindi un intervento che si muove su tre piani, giuridico, clinico, sociale, e che presuppone un’attiva collaborazione fra magistratura e servizio di salute pubblica.
All’esperimento ha partecipato anche Ernesto Venturini, psichiatra, collaboratore a suo tempo di Basaglia, che in qualità d’esperto dell’OMS ha ben conosciuto il processo di riforma psichiatrica in Brasile dal 1991. Ha tradotto il libro di De Mattos e scritto l’introduzione.
Anche lui convinto che perché ci sia una via d’uscita tutto deve girare intorno al concetto di responsabilità, “…cosa che sta alla base anche delle critiche che vengono fatte sul concetto di non imputabilità del paziente psichiatrico pensato come un elemento di “garanzia” per una persona che ha una limitata capacità d’intendere, quindi ha bisogno di un luogo specifico, di misure di sicurezza, in vista di un automatismo fra pericolosità sociale e malattia di mente”.
“Se mi sancite matto tale da essere internato senza limiti di tempo in una struttura così violenta, come potete pensare di guarirmi…” si riferisce, Venturini, alla violenza degli Opg. Ma chiusi questi, il nodo di fondo rimane lo stesso.
Il concetto di imputabilità è dunque la premessa per considerare la capacità di recupero della persona. Imbrigliati nella nostra cultura che vuole il pazzo irresponsabile e pericoloso, facciamo quasi fatica a organizzare il pensiero intorno a questa idea. Eppure, quel che è accaduto a Belo Horizonte dovrebbe iniziare a scalfire le nostre sedimentate comode certezze.
Fra l’altro alcuni studi condotti sul “Programma d’attenzione integrale” hanno dimostrato che fra la follia e l’atto violento non c’è il nulla. Spesso ci sono segnali che le persone manifestano prima di compiere reati. E quindi, smentendo l’idea che il folle agisca all’improvviso e senza motivo, è possibile pensare anche alla prevenzione.
Testimonia Venturini: “La cosa che colpisce è che i pazienti dicono a un certo punto ‘io ho capito le ragioni del mio atto. Questo mi dà una capacità di controllo e io potrò, dopo alcuni anni in cui dovrò doverosamente scontare una pena, ritornare alla mia città, alla mia famiglia….”.
“È impressionante vedere come questa cosa viene affermata dai pazienti come riconoscimento della propria dignità, e con consapevolezza. Mentre quando si è “irresponsabili” anche quel diritto minimo, che viene riconosciuto a chiunque, non viene garantito, ed è paradossale che le persone che hanno necessità di più garanzia sono quelle che hanno meno garanzia”.
I primi anni di attuazione del “Programma d’attenzione integrale” al paziente psichiatrico, parlavano di una recidiva bassissima, solo il 2% delle persone tornava a delinquere.
La via d’uscita, allora può, “considerare il malato soggetto di diritti e non oggetto della paura sociale”.
La via d’uscita non può che affrontare le contraddizioni legislative, modificare il dogma immodificabile del codice penale, che ancora inchioda “il folle” all’irresponsabilità penale e alla pericolosità sociale, restituendogli le chiavi della propria vita…
Sogni? Forse. Ma non muore quell’idea di Basaglia, il cui pensiero tanto ha influenzato l’esperienza brasiliana. Quel che “oggi” ci sembra impossibile…