4 dicembre, 2021
da psychiatryonline.it
Tra due giorni, il 6 dicembre, ricorreranno sessant’anni dal giorno della morte per leucemia di Frantz Fanon. Quindici anni fa avevo pubblicato con Luigi Ferrannini un articolo, Il folle e l’altro. Attualità di Frantz Fanon a ottant’anni dalla nascita, sulla rivista “Psichiatria di comunità” diretta da Fabrizio Asioli. Sì, tra il giorno della sua nascita e quello della sua morte trascorsero solo trentun anni; una vita breve ma straordinariamente intensa quindi, la sua.
Oggi celebriamo i sessant’anni dalla sua morte, ma di nuovo mi è difficile ragionare ordinatamente su cosa della sua vita, del suo pensiero, degli scritti attraverso i quali l’ho conosciuto avverto più presente nel mondo contemporanee, perché la verità è che oggi forse più ancora che quindici anni fa avverto l’ombra nera, commossa e indignata di Fanon, presente ogni giorno nel mio lavoro, lo stesso suo, e nelle mie emozioni di uomo di fronte a quello che accade nel mondo.
Mi è difficile ordinare le idee innanzitutto perché tra l’essere psichiatra e l’essere rivoluzionario di Fanon c’è un intreccio fecondo ma impossibile da districare. In Fanon, lo psichiatra e il rivoluzionario si nutrono incessantemente l’uno dell’altro.
Sono molti tra i suoi biografi a sottolinearlo, e scrive ad esempio McCulloch (1983, p. 82) che: «Tutti i lavori di Fanon contengono materiale che ha a che fare con fenomeni psichiatrici. E questo è vero non solo per il primo e più clinico dei suoi scritti, Maschere, e i primi articoli politici, ma anche per i testi polemici “Colonialismo” [L’anno V] e “I dannati”. Fanon stesso non distingue in modo chiaro tra i domini politico e psichiatrico, sebbene abbastanza curiosamente nella sezione finale de “I dannati” si scusi per essersi volto al soggetto della psicopatologia».
Ci sono alcuni passaggi dei suoi scritti nei quali sorprende scoprire che la corrispondenza tra lo psichiatra e il rivoluzionario diventa addirittura letterale: per esempio quando utilizza a due anni di distanza le stesse metafore per riferirsi in campo professionale all’insoddisfazione per l’inautenticità della socioterapia negli ospedali psichiatrici francesi – incapace di liberarsi fino in fondo dagli elementi di falsificazione istituzionale e corrispondere autenticamente alla realtà – e in campo politico alla delusione rispetto alla cultura nazionale e al suo rischio di perdere, con l’autenticità, il potenziale rivoluzionario e lasciarsi ridurre a folklore.
Scrive infatti nel primo caso: «Nella neo-società non c’è invenzione: non c’è un dinamismo creatore, rinnovatore. Non ci sono delle vere scosse o crisi. L’istituzione rimane il “cemento cadaverico” di cui ci parla Mauss» (Fanon, 1959, p. 305). E nel secondo: «vi si scopre scarsa mobilità. Non c’è creatività vera, non c’è effervescenza (…). Si trova una cultura irrigidita all’estremo, sedimentata, mineralizzata» (Fanon, 1961, pp. 174-175).
Fanon mutua la consapevolezza di molti fenomeni che la psicopatologia, in particolare francese, dei suoi anni ha maturato nell’ambito della clinica, e quindi in riferimento a singoli soggetti, per coglierne l’aspetto anche politico, coll’applicarli a gruppi sociali in evoluzione, attento alle emozioni in essi emergenti o prevalenti in relazione alle dinamiche di potere che li attraversano.
E allora non ci stupisce se, come ci è capitato su questa rubrica, anche negli scritti più politici, quelli destinati alla pubblicazione anonima sul foglio ribelle del Fronte di liberazione algerino El mujaedin, proposti in italiano da Gabriele Proglio per Ombre corte, a prestare attenzione possiamo trovare qua e là la parola dello psichiatra (vai al link). O se la maschera bianca o il velo islamico sono insieme esperienza del corpo ed evento politico, come mi è capitato di approfondire in La maschera e il velo. Esperienza vissuta, politica del corpo e identità nel volume collettaneo curato da Emilio di Maria nel 2017, Noi e altri. Identità e differenze al confine tra scienze diverse (De Ferrari, vai al link per la recensione e per scaricare gratuitamente il volume).
Così facendo, Fanon arricchisce la politica di un ancoraggio al corpo, e al corpo-proprio – i «casi clinici indecenti e imbarazzanti che popolano i suoi scritti politici» scrive Gendzier (1973, p. 118) – e la rende più autentica e umana; e insieme arricchisce medicina e psichiatria di una dimensione politica, che fa sì che l’uomo al quale si avvicinano non sia realtà solo anatomica, deanimata e desocializzata, corpo a se stante, ma sia corpo vivo, reso reale e concreto nella sua spazialità e storicità, e nei meccanismi di potere che quotidianamente lo investono.
La storia, della quale Fanon è protagonista e che ci racconta nei suoi scritti, non si riferisce così soltanto a uno spazio e a un tempo, ma considera un’altra dimensione: quella del corpo capace di emozioni. Quel suo corpo nero che inutilmente si sforzerebbe di mascherarsi di bianco e coglie il fatto che questo adattamento all’ingiustizia, oltre a essere umiliante, non riuscirebbe mai in modo completo. Il corpo del dannato che porta comunque i segni dei secoli della rapina e della sopraffazione.
È molto bello quanto su questo scrive Paul Gilroy nella ricca postfazione al primo tomo (vol. 1, p. 191) dell’edizione italiana degli Scritti politici: «La sua comprensione del ruolo centrale che la violenza gioca necessariamente in quel processo brutale [il colonialismo] viene costantemente messa in evidenza dagli interpreti. Meno diffusa è la considerazione che in Fanon tale ruolo è sempre temperato da un’accurata percezione dei gravi costi psicologici e politici che ogni violenza comporta. Lo sguardo del guerriero si fonde così con etiche molto diverse, con gli ideali di un medico fiducioso che ha appreso il suo mestiere cercando di sanare i traumi sempre intrecciati di torturatori e torturati».
***
Ma veniamo innanzitutto alla questione della presenza di Fanon oggi, sessant’anni dopo la sua morte, e innanzitutto alla sua presenza nel mio lavoro, che è stato anche il suo.
Di essa mi pare importante cogliere tre aspetti.
Il primo aspetto è la questione dell’istituzione. C’è un articolo, in particolare, che Fanon pubblica con Charles Geronimi nel 1959 sul day hospital neuropsichiatrico che stava dirigendo a Tunisi.
Emerge con forza la consapevolezza dei rischi dell’istituzionalizzazione h24 prolungata nel tempo in psichiatria, che sono rischi di “spezzare le antenne” del soggetto rendendolo incapace di vivere in autonomia la propria normalità e di fargli perdere capacità, potenzialità. E insieme la consapevolezza dei limiti della socioterapia all’interno di quello che rimane comunque un ospedale psichiatrico, la socioterapia che aveva direttamente praticato in Francia sotto la direzione di Francois Tosquelles. Quando mi sono imbattuto in questo articolo, originariamente pubblicato sul periodico dell’associazione medica tunisina in doppia versione araba e francese, durante un viaggio a Tunisi, stavo dirigendo un centro diurno e mi sono reso conto dell’importanza del fatto che il contatto tra il soggetto e l’istituzione psichiatrica sia sempre il più possibile parziale, perché essa non si strasformi in una trappola fatale. E mi sono reso conto di quanto la relazione tra ciò che scrivono Fanon, Goffman e Basaglia in quegli anni a proposito dell’istituzione psichiatrica sia assonante, e sia – nel caso di tutti e tre – attuale. Così, nel 2005 ho presentato una riduzione in italiano sulla rivista Studi culturali di questo articolo fondamentale nella storia rcente della psichiatria, che poi nel 2011 Roberto Beneduce ha pubblicato nella traduzione italiana di tutti gli scritti psichiatrici fanoniani, Decolonizzare la follia (Ombre corte).
Il secondo aspetto da considerare in ciò che Fanon lascia alla psichiatria è quello relativo alla relazione tra psichiatria e cultura. Fanon vi si imbatte quando, psichiatra a Blidah in Algeria dopo essersi formato in Francia, si rende conto dell’insensatezza di applicare i test progettati per lo studio degli europei e nordamericani ad altre popolazioni, le donne algerine ad esempio. O dell’impossibilità di proporre tali e quali in ambiente arabo gli stessi modelli di socioterapia pensati per gli uomini di una società occidentale, e quindi della necessità di adattarli per poterli calare in una diversa realtà. Questo aspetto è relativo al fatto che si rende conto, insomma, che l’uomo bianco, occidentale e la sua cultura non sono misura per tutti gli altri uomini, non sono lo standard rispetto al quale agli altri uomini deve essere attribuito valore e al quale gli altri uomini devono, volenti o nolenti, adattarsi (sempre che ciò sia loro benignamente permesso). Per queste osservazioni soprattutto, Fanon è posto all’origine dell’etnopsichiatria moderna, un’etnopsichiatria critica che, come scrive Roberto Beneduce, tiene conto della questione del potere e della storia coloniale.
Il terzo aspetto da considerare nello psichiatra Fanon è appunto quello relativo alla relazione tra psichiatria, potere e povertà all’interno dell’ordine coloniale, sia esso quello che vige nella città europea dove l’altro, il migrante, è l’intruso costretto a dire attraverso il corpo l’umiliazione che soffre e la ribellione che non può permettersi di manifestare in altro modo; o sia esso quell’ordine che vige nella colonia, dove il nero, l’arabo, esistono comunque in funzione del bianco che è comunque padrone, signore anche quando è in casa altrui. La psichiatria del bianco non sa cogliere nel corpo e nell’anima dell’altro i segni muti di una sofferenza che ha la sua origine nella realtà, nella storia. Una realtà e una storia che non possono che generare sofferenza e umiliazione per gli uni; e che dovrebbero generare, ma generano raramente, imbarazzo e rimorso negli altri.
Fanon ne scrive a proposito dei migranti maghrebini in Francia, in un articolo di straordinaria sensibilità e ironia del 1952, La sindrome nordafricana. E ritorna a scriverne nella lettera fiera con la quale lascia il lavoro nell’Algeria francese per passare a quello nella Tunisia libera, perché avverte l’impossibilità di essere psichiatra nella colonia.
Non gli è possibile pensare di restituire il paziente dopo la cura a una società, che è resa malata dall’ingiustizia sterminata che la pervade, non gli pare che abbia un senso insomma la cura dove l’ingiustizia del contesto nel quale si opera è troppo evidente, è troppo grande.
Non tenendone conto, è consapevole che la psichiatria finirebbe per rendersi complice di un sistema di oppressione del quale costituirebbe uno strumento tra gli altri.
E in quel sistema, in qualche misura, ci imbattiamo ancora ogni giorno nel servizio pubblico di salute mentale, al quale la sofferenza emotiva si presenta spesso accompagnata dalle sue sorelle: la povertà, di relazioni e di mezzi materiali, la disoccupazione, la solitudine, il sentimento di estraneità dell’essere straniero, erede di una storia drammatica che ha talvolta a che fare con l’ingiustizia secolare dello schiavismo e la colonia, l’esclusione, il non avere una casa o anche solo un posto al coperto per passarvi la notte. Ai nostri servizi la sofferenza del soggetto si presenta insieme come problema che riguarda la dimensione simbolica, ma anche il bisogno materiale. E come problema complesso, che interroga il sistema di cura ma anche il sistema di welfare che più spesso del primo si fa trovare avaro, sordo, inadeguato; come se a bisogni complessi fosse sufficiente la risposta della cura in senso sanitario.
La sua sofferenza si presenta come problema che interroga l’operatore come persona che incontra una persona, come un tempo interrogava la sensibilità di Fanon – piaccia o non piaccia ai puristi della disciplina, o a coloro che credono di poter curare l’uomo considerando una dimensione della sua umana esperienza ed escludendo le altre – come problema psichiatrico e come problema politico insieme, quindi. E ciò rende difficile all’operatore chiudersi all’altro nel pensiero: questo son qui per fare, il resto non è affar mio. Perché il bisogno dell’altro, il più delle volte, esige una risposta come bisogno totale di aiuto – di presa in “carico” appunto (vai al link) – e non ammette separazioni che esistono solo nei nostri modelli, ma nella realtà della vera vita non esistono.
Fanon politico: lo scandalo di uno sguardo dannato
Accanto alla presenza di Fanon nel lavoro, come dicevo all’inizio, ne avverto drammaticamente attuale la presenza anche nel mondo, nella realtà geopolitica nella quale vivo e viviamo, una presenza preoccupata, indignata, onesta, disperatamente fedele al reale.
Qualche giorno fa, il 30 novembre e 1 dicembre, in occasione dei sessant’anni dall’uscita, pochi giorni prima della sua morte, del libro probabilmente più famoso che ha scritto – I dannati della terra – si è tenuto a Torino il convegno Frantz Fanon. Un pensiero indocile, al centro del quale stava la proiezione di un documentario realizzato dal regista Hassane Mezine, presente all’incontro, sulla vita e l’attualità di Fanon. Tra i partecipanti, oltre a Roberto Beneduce e Roberto Bertolino, a Simona Imazio e a Sahil Jha, del Centro Frantz Fanon di Torino, lo stesso regista, la psichiatra palestinese Samah Jabr di Ramallah, gli altri registi Alexandra Dols di Parigi e Joris Lachaise di Marsiglia, la psicoanalista Karima Lazari di Parigi (autrice del saggio Le trauma colonial, già disponibile in francese e inglese e di prossima pubblicazione in Italia), gli antropologi Patrice Yengo e Anne Lovell di Parigi (quest’ultima si è occupata in particolare della relazione tra Fanon e Basaglia), Zakaria Rhani di Rabat, che ha svolto un intervento toccante sulla persistenza tortura nel mondo postcoloniale, Gilles Bibeau di Montreal, autore del volume Généalogie de la violence, l’avvocato torinese Gianluca Vitale, che ha testimoniato l’inferno dei CPT, la scrittrice maliana Aminata Dramane Traoré, autrice del romanzo La morsa, il filosofo Lewis Gordon, attivo tra USA e Sudafrica e autore di saggi importanti su Fanon, che si è soffermato sul rapporto tra Fanon, il cadavere, la follia e i dannati, e la psichiatra Helena Hansen di Los Angeles.
Partecipando, purtroppo solo da remoto, alle due giornate, ho tratto comunque stimoli importanti, dei quali vorrei fare tesoro per la seconda parte di questo scritto.
Ho trovato particolarmente pregnante il concetto di “patto coloniale” proposto da Karima Lazari per designare quella sorta di patto tacito per il quale l’ordine coloniale continua a vigere tanto nei Paesi di migrazione del nord del mondo che in quelli di sfruttamento del sud del mondo, negli ex Paesi colonialisti e nelle ex colonie. È un patto che sembra non poter essere messo in discussione, come se costituisse un ordine delle cose che viene considerato l’imprescindibile alla base di ogni altra discussione, ciò che è inutile dire e ricordare perché, comunque, pare che sia nell’ordine naturale delle cose come l’aria, l’accqua, le montagne, le alluvioni e i terremoti.
Dato questo tacito patto per scontato, democrazia e liberalismo sembrano a Lazari le nuove forme che l’ordine coloniale ha assunto nelle ex colonie, destinate a rimanere tali ma soltanto in altra forma dopo che è stata concessa loro dall’alto un’indipendenza senza decolonizzazione, dopo che la partecipazione dei popoli extraeuropei alla liberazione dal nazifascismo ha reso impraticabile l’ordine coloniale nella sua brutale forma originaria, e – nove anni dopo il massacro di Sétif – come ha ricordato Patrice Yengo, la battaglia di Dien Bien Phu ha dimostrato che, nella nuova situazione venutasi a creare, poteva accadere che il nord del mondo fosse sconfitto dal sud.
Lo scandalo costituito da Fanon, a partire da quando comincia a scrivere nel 1952 fino all’ultimo scritto, pubblicato appunto pochi giorni prima della morte alla fine del 1961, consiste nell’aver osato dire questo indicibile, nell’avere ribaltato verità che parevano scontate, chiare come la luce, nell’avere mostrato il volto scuro, rimosso, vergognoso delle cose, la loro intima putredine. Ciò che lo rendeva e continua a renderlo scandaloso, nonostante gli infiniti tentativi di addomesticamento, assoggettamento, normalizzazione ai quali la sua parola è continuamente esposta, è il fatto di avere frantumato il patto coloniale e il silenzio ipocrita che lo circonda nel quale tutti, dominatori e dominati, si è complici, per scrivere senza maschera e senza velo le cose come appaiono, come non possono non apparire a uno sguardo onesto e ingenuo, autenticamente fenomenologico direi, radicalmente marxiano forse nello svelamento della loro materiale realtà e nell’analisi storica del loro fondamento, le cose così come stanno. Le cose stesse.
Fanon è scandaloso, ancora, perché è radicalmente divisivo quando rinfaccia all’europeo, al bianco al quale gli altri popoli della terra devono smettere di sforzarsi di somigliare se vogliono trovare se stessi – il loro valore – il debito secolare che ha contratto verso i popoli del sud del mondo, consumandone giorno dopo giorno, e continuando oggi a consumarne, le risorse del suolo, la forza-lavoro, le vite, i corpi, l’acqua, l’aria, il clima. È un debito storico enorme, così immenso che si finisce per non poterlo vedere, di fronte al quale non c’è debito finanziario che tenga, non c’è risparmio di anidride carbonica possibile che possa non tenere conto della storia, nella quale alcuni hanno costruito il benessere per sé e la supremazia sugli altri riscaldando il pianeta di tutti. E oggi che fa caldo per tutti, sono evidentemente loro che devono rassegnarsi a restituire, almeno qualcosa.
La colonia è un’enorme ingiustizia che in un mondo globale rischia in qualunque momento di ritorcersi su tutti: perché sulla stessa terra non può esserci salvezza solo per alcuni, e anche la pandemia dimostra che, anche ad essere cinici, basta possedere minime nozioni di epidemiologia per capire che quando in un continente così vicino solo il 7% della polazione ha accesso al vaccino, nessuno può sentirsi al sicuro. Che sulla stessa terra ci si salva solo insieme (vai al link).
Perché diversamente la colonia – che è una delle dimensioni che il capitale ha assunto nella storia – distruggerà la terra, e la distruggerà per tutti coloro che la abitano, gli oppressori e gli oppressi.
Ma non basta ancora; Fanon è scandaloso anche quando denuncia fin dal suo nascere, ribelle a qualunque retorica e falso trionfalismo, il tradimento delle borghesie nazionali e del perpetuarsi in altra forma, più moderna, attraverso di esse del dominio coloniale: il fatto che in un colonialismo senza più colonie continuano lo sfruttamento, l’esclusione, le disuguaglianze radicali, e spesso anche il razzismo in forme vecchie e nuove e la tortura nei nuovi Stati, formalmente indipendenti ma legati a doppio filo agli antichi meccanismi di dominazione. Stati più o meno fantoccio che – in buona parte – hanno ricevuto l’indipendenza come un dono benignamente concesso dall’alto senza l’esperienza di passare per una autentica decolonizzazione, ha detto appento Yengo e mi pare che non si possa che condividere.
Ma che anche quando hanno attraversato una sanguinosa guerra di liberazione, l’hanno tradita dall’inizio, ed è proprio il caso dell’Algeria.
Accanto a tutto questo poi, ancora Fanon è scandaloso per il fatto di non rivolgersi nei suoi scritti all’europeo, al bianco. Di non scrivere, insomma, per noi. Ma di rivolgersi appunto al dannato della terra, perché è al dannato che chiede di trovare in sé la forza per uscire dal patto coloniale e scoprire l’uomo che è in lui, avere rispetto dell’uomo che è in lui e, attraverso questo riconoscimento di se stesso, pretendere di essere riconosciuto e rispettato dall’altro. Di rinunciare a indossare maschere bianche, ma di non cadere nemmeno nella trappola opposta di abbarbicarsi alla tradizione e al folklore, per cercare indietro, anziché avanti, l’affermazione possibile della propria identità.
È nel dannato che Fanon pensa che possa sprigionarsi la forza per rompere l’effetto dell’istituzione-colonia che – come l’istituzione psichiatrica in un noto scritto nel quale Basaglia faceva ricorso a un apologo originariamente proposto dal sociologo sovietico Davydov (vai al link) – entra nel corpo e lo riduce in suo potere lasciandolo, quando ne esce, vuoto e perciò esposto appunto a nuove forme di assoggettamento e occupazione.
Dal bianco, dall’europeo – e forse non aveva torto – malato di questo sentimento di superiorità che tanti problemi ha creato nei secoli passati al resto del mondo, Fanon non si aspettava più, giunti a questo punto della storia, niente di buono.
Sono ingiustizie enormi, secolari e planetarie nelle dimensioni, quelle che l’operazione di frantumazione e smascheramento operata da Fanon svela, e forse proprio per la loro grandezza danno la sensazione che sia inutile parlarne, perché non potrebbero comunque essere sanate. Ingiustizie radicali che la maggior parte degli uomini e delle donne sulla terra porta scritte sulla pelle e nei corpi, e che si rinnovano e ritornano ogni giorno che passa ad aprirsi. E fanno sì che le vittime di un attentato o di una guerra abbiano un peso così diverso a seconda che si tratti degli uomini, delle donne, dei bambini di una città del nord o del sud del mondo (vai al link). Che ai banchetti del capitale qualcuno sia invitato e qualcun altro abbia per destino guardare desiderando da fuori la vetrina o, se sceglie di entrare, non possa che finire per farlo in modo caotico, sconclusionato, a sua volta violento (vai al link). Che il peso di un corpo annegato o morto sul confine sia così diverso a seconda che sia quello di un migrante o di un turista, e il lutto per questa tragedia che si consuma davanti ai nostri sguardi colpevoli e distratti – che è la cifra, credo, per cui questi nostri anni saranno ricordati nella storia come gli anni delle morti di confine – ha punteggiato questa rubrica come uno dei suoi temi più costanti e più drammatici. Che persino in una stessa terra e in una stessa guerra, e anche di questo abbiamo dovuto ritornare a scrivere traendo a ogni fine d’anno il bilancio di questi sei anni, il peso di un morto israeliano sia avvertito nella cronaca del nord del mondo così diverso, da quello di un morto palestinese.
Sono queste le cose che Fanon scrive e che invece non andrebbero scritte, perché – se le si scrive e le si legge – la falsa narrazione della storia scritta dai vincitori sulla quale si regge il mondo che viviamo, la sua colossale rimozione della reale realtà, bruscamente si inceppa; e la vita rischia di non poter più scorrere uguale a come sta scorrendo, prigioniera del patto coloniale invisibile e indicibile che inganna tutti, oppressori e oppressi.
Sono queste le cose delle quali lo scandaloso Fanon ha scritto e continua ancora a scrivere finché noi lo leggiamo. Le cose che noi oggi non dobbiamo stancarci di ritornare a nostra volta a scrivere, a denunciare a nostra volta monotoni, noiosi, insistenti, fastidiosi, scontati, ovvi, inopportuni, come lui lo è stato; e forse noi, solo, meno capaci di incisività e di passione rispetto a lui che tutto questo soffriva sulla sua pelle nera, nel suo corpo descritto inquieto, insonne, nervoso, affrettato, arrabbiato col mondo, indocile appunto da chi, come Simone De Beauvoir ad esempio, lo ha incontrato.
Nel suo sguardo che, nel corso delle giornate torinesi, Roberto Beneduce ha immaginato triste e preoccupato quando si posa sul mondo e la sua intrinseca spaventosa violenza, ma caloroso e capace di un’attenzione infinita di medico quando si posa sul malato. E che Bendeuce ha raccontato di incontrare ancora, talvolta, nello sguardo di un paziente straniero che manifesta una rabbia che non ha spiegazione, e può apparire folle, se non si tiene presente che è il suo modo per dar voce a «una storia ruggente che vive ancora in lui, inconsapevole, indelebile, che non accetta di essere addomesticata».
Nigrofobia, islamofobia, Palestina, antimperialismo: sono queste secondo Alexandra Dols quattro parole chiave nelle quali è possibile cogliere in modo più intenso la presenza di Fanon oggi.
La nigrofobia che lui ha conosciuto nella sua infanzia alla Martinica, nell’università e nell’esercito francesi, nel suo maltollerato lavoro di psichiatra tra i colleghi e gli infermieri arabi incontrati negli anni della loro lotta per l’indipendenza, perché anche nei momenti migliori c’è sempre qualcuno, anche tra i dannati, più dannato, più negro degli altri.
L’islamofobia, che ha conosciuto nella sua patria di adozione, l’Algeria, durante gli anni di una guerra spietata di liberazione anticoloniale, della complicità della psichiatria coloniale francese con la violenza e i falsi miti della colonia, quelli che raccontano l’arabo, l’algerino, pericolosamente impulsivo, più prossimo all’animale che all’uomo civile nella struttura stessa del cervello, intrinsecamente bugiardo, portato alla ribellione dalle proprie nevrosi e non da un ovvio bisogno di riconoscimento e di giustizia; portato alla violenza dalla sua natura e non dalla necessità di ribaltare la violenza contro l’atto coloniale che è, esso sì, intrinsecamente prevaricatore e violento.
E poi la Palestina, dove l’ingiustizia del mondo sembra trovare oggi un laboratorio ineludibile e crudele, dove si combatte giorno per giorno l’ultima guerra coloniale di vecchia forma, la guerra di un esercito armato e agguerrito contro un popolo pressocché inerme, dove vige l’ultimo apartheid, dove si contende palmo a palmo la terra in una catastrofe che si sente che non avrà fine fino a che la pulizia etnica non avrà avuto ragione dell’ultimo lembo di terra palestinese rimasto. E dove l’essere gli uni vittima di coloro che sono stati nella storia vittima più di ogni altro, rende l’ingiustizia ancora più indicibile in un silenzio complice, rassegnato ad assistere al sacrificio di un popolo condannato a pagare per tutti un debito storico immenso, ma un debito non proprio. Che nello spirito Fanon, del resto, sarebbe stato con i giovani palestinesi che danno corpo all’Intifada e alla marcia sul confine, i più dannati tra i dannati forse oggi, lo ha testimoniato sua moglie Josie quando – lo ha ricordato Samah Jabr a Torino – nel 1966 ha chiesto all’editore Maspero di eliminare da I dannati la prefazione di Sartre, perché le posizioni filosioniste che questi aveva assunto non le parevano compatibili con i contenuti del libro.
Infine, l’antiimperialismo, cioè la guerra contro l’ordine coloniale nella nuova forma sulla quale oggi si attesta, perché certo è anche la persistenza stessa, oggi, dell’oppressione coloniale in altra forma a rendere, lo abbiamo visto, la parola scandalosa di Fanon presente, sessant’anni dopo che la morte prematura per una banale malattia ce ne ha privato.
È questa persistenza del patto coloniale dopo la fine, apparente, delle colonie a rendere le parole di Fanon, le ingiustizie che soffre e che denuncia, la presa di coscienza che chiede ai dannati della terra, ancora oggi così scandalose.
Perché in questi sessant’anni dalla sua morte, da quel contraddittorio 1961 che si è aperto, lo ha ricordato ancora Beneduce, con l’assassinio di Patrice Lumumba il 17 gennaio e si è chiuso con la morte per malattia di Fanon il 6 dicembre – ma che ha aperto anche quel decennio che sarebbe culminato nel ‘68 con la pubblicazione di libri straordinari come I dannati della terra, come Asylums di Goffman, come l’Histoire de la folie di Foucault e con l’ingresso di Franco Basaglia all’Ospedale psichiatrico di Gorizia – pochissimo davvero sembra essere cambiato.
Un tacito patto coloniale che senza più la colonia continua a fare della colonia l’ordine del mondo, e Fanon ha portato allo scoperto – Karima Lazari ha ragione – continua a pesare sessant’anni dopo la sua morte sul mondo, e anche solo riuscire a dirlo sembra ancora impossibile.
Quanto a provare a spezzarlo, poi…
Testi di riferimento:
Basaglia F. (1968): Corpo e istituzione, in: : Scritti, vol. 1, Einaudi, Torino 1981, pp. 428-441.
Beneduce R. (2007): Etnopsichiatria. Sofferenza mentale e alterità fra Storia, dominio, cultura, Roma, Carocci.
Fanon F. (1952): Pelle nera, maschere bianche, Pisa, ETS, 2015.
Fanon F. (1952-1959): Scritti politici (ed. it. a cura di M. Mellino), Roma, Derive approdi, 2007.
Fanon F. (1952-1959): Decolonizzare la follia. Scritti sulla psichiatria coloniale (a cura di R. Beneduce), Verona, Ombre corte, 2011.
Fanon F. (1957-1959): La rivoluzione algerina e la liberazione dell’Africa. Scritti politici (1957-1960) (a cura di G. Proglio), Verona, Ombre corte, 2017.
Fanon F. (1961): I dannati della terra (a cura di L. Ellena), Torino, Einaudi, 2007.
Gendzier I. (1973): Frantz Fanon, Paris, Editions du seuil, 1976.
Gilroy P. (2006): Postfazione, in: Fanon F.: Scritti politici, cit., pp. 187-193.
McCulloch J. (1983): Black soul white artifact. Fanon’s clinical psychology and social theory, Cambridge, Cambridge University Press.
Peloso P.F. (2005): Presentazione di: F. Fanon: Tunisi 1959: un esperimento di ospedalizzazione diurna in psichiatria, Studi culturali, 2, 2, pp. 291-311.
Peloso P.F., Ferrannini L. (2003): Psichiatria transculturale e psichiatria della non-persona, Fogli di Informazione, 198, pp. 63-81.
Peloso P.F., Ferrannini L. (2006): Il folle e l’altro. Attualità di Frantz Fanon a ottant’anni dalla nascita, Psichiatria di comunità, 5, 1, pp. 38-47.
Peloso P.F. (2017): La maschera e il velo. Esperienza vissuta, politiche del corpo e identità, in: Noi e altri. Identità e differenze al confine tra scienze diverse (a cura di E. Di Maria), Genova, De ferrari, pp. 72-82.
Link all’originale >>> http://www.psychiatryonline.it/node/9355