Di Sarantis Thanopulos
Sarantis Thanopulos, che conduce da anni questa Rubrica, amico caro e psicoanalista della Società Psicoanalitica Italiana, presenta in questo scritto le ragioni “forti” per le quali si candida a divenire nuovo Presidente della SPI per il prossimo quadriennio. Sono parole sentite e “cliniche” incentrate sul tema della cura e del curare in una prospettiva certo psicoanalitica ma attenta primariamente ai bisogni di chi chiede aiuto e alla realtà dell’operare dello psicoanalista oggi in una società in rapido cambiamento, parole oneste e condivisibili che mi hanno convinto sinceramente, al di là della personale amicizia, ad appoggiare, come Rivista, senza se e senza ma la sua candidatura.
Francesco Bollorino, Editor di POL.it
[articolo uscito su psychiatryonline.it]
«La mia candidatura alla presidenza della Società Psicoanalitica Italiana ha le sue radici nel mio mondo di intendere l’appartenenza alla cultura e al sapere psicoanalitico. Considero la psicoanalisi come un modo di conoscere l’uomo e il mondo e prendere cura del dolore psichico che conserva il suo potenziale liberatorio, rivoluzionario, a condizione di mettersi costantemente in discussione. La psicoanalisi non è una professione di fede, né un freddo strumento tecnico. È una disciplina, fondata sul pensiero critico, che apprende dall’esperienza psicocorporea trasformativa che promuove. Si fa carico dei propri insuccessi, che la interrogano e la obbligano a revisioni costanti. Non si ammanta dei suoi successi (spesso poco appariscenti, ma sostanziali) non è una scienza onnipotente e arrogante. Richiede una passione che sfida gli ostacoli e un costante esercizio di modestia, senso della misura.»
Inizia così il mio programma presentato ai soci della S.P.I, cioè nel senso della rivendicazione dell’apertura all’imprevisto e alla riconsiderazione costante delle proprie prospettive che fa della mia professione (squisitamente clinica) uno strumento conoscitivo originale e attento ai cambiamenti. Il rapporto della psicoanalisi con la società, la cultura e con le alle altre discipline scientifiche (naturali e umanistiche) a volte è fecondo a volte slitta nell’incomprensione reciproca. Un po’ per i ricorrenti attacchi contro la psicoanalisi (disciplina scomoda) – spesso motivati da interessi di “mercato” o pregiudizi ideologici, piuttosto che da motivi scientifici – che hanno favorito un certo assetto difensivo degli analisti. Un po’ perché gli analisti, legati come sono al loro lavoro di studio, non sempre riescono a uscire dal loro idioma clinico-teorico e anche da una certa “gelosia” nei confronti del loro sapere.
La S.P.I ha avuto storicamente un ruolo centrale nel campo della cura psichica ad orientamento psicoanalitico (nelle sue diverse declinazioni: la cultura della cura psicoanalitica si diffonde in un’area ben più ampia della SPI) per la ricchezza del suo patrimonio culturale e scientifico, il pluralismo delle sue prospettive teoriche, il rigore della sua scuola di formazione e la buona preparazione clinica dei suoi soci. Nonostante le difficoltà del confronto con la psichiatria (progressivamente ritirata, in gran parte, in una prospettiva puramente biologica), ha saputo interrogarsi sui limiti a cui inevitabilmente la espone il rapporto con le forme più destrutturanti del disagio psichico e in generale con le forme di malessere che non si offrono all’applicazione tradizionalmente affermata del proprio approccio alla cura. Confrontandosi con la realtà, la S.P.I si è resa protagonista di un’estensione delle modalità e dei campi di applicazione del metodo psicoanalitico. L’uso della psicoanalisi si è espanso nel campo della terapia di gruppo, di coppia, di famiglia, di pazienti gravemente destrutturati sul piano psichico, di pazienti della terza età o colpiti da disabilità o malattie organiche gravi o incurabili, di pazienti con difficoltà economiche o viventi in un contesto sociale e lavorativo che non consente loro un’analisi regolare. Il lavoro psicoanalitico richiede in questi casi variazioni di setting come accade negli interventi terapeutici all’interno delle istituzioni pubbliche (ma anche nelle carceri) in cui molti analisti lavorano, in situazioni segnate dalla precarietà e da un certo degrado dei rapporti umani.
Come candidato alla presidenza della SPI sono un convinto sostenitore di questa apertura alla vita da parte della psicoanalisi che la porta oltre l’applicazione ottimale del suo metodo, ma le consente di ampliare molto il suo campo clinico e lo spazio della sua ricerca. Più rigoroso è il sapere psicoanalitico, più si può arricchire dalle esperienze in campo aperto. Rigore e sperimentazione sono il futuro della clinica psicoanalitica, ma anche della cura psichica in tutte le sue forme. Il progressivo distanziamento tra la psicoanalisi e la psichiatria, come pure l’allontanamento di quest’ultima dalla tradizione fenomenologica che le aveva dato profondità di osservazione e di diagnosi, ha sicuramente indebolito la clinica del dolore psichico non solo nei servizi pubblici, ma anche nel campo privato. L’uso eccessivo dei farmaci e l’applicazione diffusa delle tecniche di adattamento ai standard comportamentali sociali spingono verso una repressione, piuttosto che cura, della sofferenza che produce effetti spersonalizzanti poco visibili, ma devastanti. La negativizzazione del dolore favorisce la compressione psichica e l’inerzia e il sempre più frequente fenomeno delle psicosi asintomatiche (che esplodono/implodono improvvisamente) è allarmante. I servizi psichiatrici non sono stati mai luoghi di felicità, ma una volta erano animati dalla passione della cura, il piacere della conoscenza, la solidarietà umana (è nel servizio di Psicoterapia della Federico II di Napoli che mi sono “fatto le ossa”). Oggi tendono ad essere luoghi deprimenti.
Molti analisti o psicoterapeuti di orientamento psicoanalitico operano nei servizi pubblici e contribuiscono molto al mantenimento della dignità del lavoro di cura. Non sempre compresi dai loro colleghi che lavorano esclusivamente nel privato, sono oggetto di diffidenza o anche di discriminazione da parte della mentalità dell’approccio puramente quantitativo alla terapia che oggi domina la scena della sanità pubblica. È mia forte aspirazione e del gruppo degli amici che si candidano insieme a me all’esecutivo della SPI (Ludovica Grassi, Enrico Mangini, Giorgio Mattana, Elena Molinari, Michele Stuflesser) di sostenere il lavoro di questi colleghi e di promuovere, a partire dal loro fondamentale contributo, una riforma profonda del modo di sentire, pensare e realizzare la terapia di coloro che soffrono. Perché essa miri a prendere cura di loro come persone intere e non si limiti a far silenziare il dolore (col rischio di trasformare il dolore acuto in dolore cronico, tossico, sordo). Nell’ambito di uno sforzo collettivo che coinvolga tutte le forze che operano nel campo della cura psichica, e non solo gli psicoanalisti. Parlo di una riforma culturale che raccolga l’eredità della riforma Basaglia (oggi ritualmente celebrata, ma largamente lasciata appassire) e ne ampli la portata.
Con l’attuale esecutivo della SPI è stato avviato il funzionamento dei Centri di consulenza e di psicoterapia psicoanalitica. Sono un investimento strategico della SPI nel campo della sofferenza psichica più sfuggente agli interventi terapeutici ben strutturati, sotto il profilo del metodo e dell’organizzazione del trattamento, a causa della gravità del disagio o della precarietà del contesto socioculturale in cui ci trova a operare. Per il nostro gruppo di candidati all’Esecutivo della SPI le linee di indirizzo del loro funzionamento (affidato al lavoro in gruppo) dovrebbero essere queste: essere al servizio dei ceti sociali disagiati applicando prezzi agevolati; l’apprendistato clinico degli analisti in formazione e il tirocinio di giovani laureati in psicologia; la trasparenza assoluta della loro attività nell’ambito della loro qualifica di enti senza scopi di lucro; il loro legame organico con l’attività di ricerca dei Centri della SPI e con la ricerca psichiatrica in generale; la collaborazione stabile con i servizi pubblici di cura a cui va riconosciuta la centralità nell’ambito della sofferenza psichica socialmente complicata. La sinergia dei Centri “clinici” della SPI con gli psicoanalisti che lavorano nei servizi pubblici e nell’università, servirà a costruire di convergenze e alleanze nel campo della cura psichica con chi ha una visuale diversa dalla nostra.
Nel campo della cura psichica operano due prospettive di cura che a volte si incontrano, spesso si ignorano, a volte si scontrano fortemente. La prima prospettiva ragiona in termini di bisogno e di quantità, vede la terapia come alleviamento delle tensioni interne e come stabilizzazione. La seconda prospettiva, quella più specificamente psicoanalitica, privilegia il desiderio è la qualità, cerca di rende possibili esperienze di vita fondate sul persistere di tensioni piacevoli, profonde e complesse. Ciò implica la possibilità di vivere, godendone, un certo grado di destabilizzazione. Per gli psicoanalisti la cura tanto più raggiunge il suo obiettivo quanto più restituisce al paziente la sua condizione naturale di soggetto desiderante. Nondimeno nessun analista sottovaluti l’aspetto “economico” del suo lavoro: rendere più tollerabile e meno destrutturante l’angoscia e il dolore dei suoi pazienti.
Tra la prospettiva della quantità e quella della qualità la collaborazione è indispensabile, ma bisogna andare oltre le contrapposizioni sterili, i conflitti degli interessi particolari e i pregiudizi, spesso pretestuosi. Mi riferisco in particolare al principio dell’“evidenza”, usato come pregiudizio, che, primo, ignora spesso il legame necessario tra ciò che è evidente e ciò che non lo è (le evidenze nulla dicono da sole) e, secondo, pretende che l’efficacia del lavoro analitico venga misurata secondo parametri non di qualità, ma di quantità, importati da altre discipline. Un gruppo di ricerca sull’efficacia del metodo psicoanalitico proposto dall’attuale esecutivo della SPI va nella direzione giusta di individuazione di parametri di valutazione che tengano conto della qualità della vita e dei processi trasformativi e che emergano dal materiale clinico rivisitato in gruppo. Gli psicoanalisti della SPI non sono affatto chiusi alla verifica dell’efficacia della cura psichica ma la elaborano secondo parametri che non recingono il destino dei pazienti nel vivere “asintomatico”, nello spazio dei comportamenti socialmente accettabili. La S.P.I che servirò sarà dialogante con tutti, mai disposta a rapporti opportunistici o a alleanze di potere. Con la convinzione che solo la convergenza, anche sanamente conflittuale, tra diverse prospettive crea un terreno fertile per una rinnovamento culturale profondo della relazione di cura. Un rinnovamento in grado di garantirle la miglior efficacia possibile sul piano del contenimento del dolore, ma anche di allontanarla dalle logiche della dipendenza e dell’assistenzialismo e di valorizzare la qualità della vita e il diritto di reintegrazione sociale, culturale e politica a coloro che “ammalandosi” hanno perso il loro statuto di cittadini.
Se saremo eletti ci sarà un impegno forte da parte della SPI per la costituzione degli Stati Generali della Cura Psichica. Per una mobilitazione permanente di tutte le forze disponibili: gli psicoanalisti, gli psicoterapeuti dei vari orientamenti, la psichiatria e la psicologia clinica dei servizi pubblici e del territorio, le neuroscienze, le aree di creatività artistica condivisa che si interrogano sul dolore è la sua cura (le arti figurative e plastiche, la musica, il teatro, la musica), le attività riabilitative e di sostegno sociale che si fanno carico degli aspetti più degradati della sofferenza.
Considero di speciale importanza, perché pone il problema molto serio della prevenzione, il sempre più diffuso grave disagio psichico dei bambini e degli adolescenti (spesso misconosciuto o negato e lasciato incancrenire). L’attenzione della sanità pubblica a questo campo di malessere è manifestamente inadeguata. Come assolutamente carente è l’interesse verso le dinamiche familiari e coniugali, soprattutto in un’epoca da cui da una parte sta cambiando la definizione di parentalità e dall’altra si intensifica la violenza domestica contro le donne. In questo campo di malessere in cui disagio dei genitori, il disagio coniugale e il disagio dei figli si intrecciano senza avere, molte volte, una chiara idea dei confini e delle determinazioni, particolare è il fenomeno dell’ “autismo”. Irriducibile a un singolo paradigma, sempre più collocabile nella relazione tra genetica e ambiente, piuttosto che in uno di questi due campi (l’epigenetica può essere qui molto interessante), esso non è neppure veramente corrispondente alla sua denominazione. L’essere chiusi in se stessi corrisponde più chiaramente al ritiro di soggetti in qualche modo presenti e inquadrabili anche linguisticamente nelle relazioni tra noi, mentre dei bambini “autistici” ignoriamo la prospettiva sul mondo e dovremmo fare uno sforzo di umiltà per non continuare a vederli attraverso la nostra. Qui si manifesta nel modo più interrogante la necessità di unire le forze per imparare, da diverse angolazioni, ad “ascoltare” lo sguardo dell’altro e comprendere il suo grado di sofferenza non perché non è in grado di integrarsi nella nostra realtà ma perché non trova accoglienza. Frammentare le risorse in dispute ideologiche o in scontri di potere è devastante.
L’idea degli psicoanalisti come professionisti autoreferenziali e arroccati nei loro studi è stata sempre lontana dalla verità, anche se in alcuni momenti si è fatto poco per dissipare i dubbi, smentire le apparenze. La S.P.I è stata sempre curiosa e interessata alle altre discipline conoscitive (filosofia, antropologia, neuroscienze, critica letteraria, linguistica) come pure all’arte, al cinema, al teatro e alla letteratura. E socialmente impegnata: costantemente dalla parte dei deboli e dei diseredati. Questa tradizione (e ricchezza) innegabile, non si è mai compiutamente messa in gioco nella società e nella cultura italiana, mantenendo un carattere discontinuo e, spesso, individuale. È tempo che ciò accada.