Di Cesare Bondioli, Centro Franco Basaglia, Arezzo
L’epidemia Covid-19 avrebbe dovuto riproporre, per i suoi disastrosi effetti su queste strutture, una riflessione sulla realtà delle RSA in Italia ma questa è mancata, salvo un articolo di Maria Grazia Giannichedda sul Manifesto del 9 aprile scorso in cui si andava alla sostanza del problema delle RSA, mentre negli articoli su tutti i giornali, quotidianamente, ci si è limitati a riferire, e qualche volta a commentare, le cifra spaventose dell’infezione che ha colpito queste strutture – cito per tutti un titolo de La Repubblica del 19 aprile u.s.: Numeri shock. Nelle residenze per anziani 7000 contagiati (in Lombardia).
Nessuno che si sia interrogato sul perché di questa ecatombe o se questa potesse essere messa in relazione anche all’attuale realtà delle residenze per anziani.
Vero è che non è agevole addentrarsi nell’analisi di questa realtà, anche per il modo con cui questa viene “fotografata” nei report ufficiali. Nel report dell’ISTAT al 31 dicembre 2015 (l’ultimo disponibile) vengono riferiti 12.828 presidi residenziali socio-assistenziali e socio-sanitari attivi In Italia; essi dispongono complessivamente di 390.689 posti letto (di cui circa 21.000 per minori!) con oltre due terzi dei posti letto complessivi (75,2%) costituiti prevalentemente da “unità di servizio” che erogano prestazioni di tipo socio-sanitario.
Si riporta inoltre che tra gli adulti (18-64 anni) prevalgono gli uomini, che costituiscono il 63% dell’intero collettivo, e il motivo del ricovero è legato principalmente alla presenza di disabilità o di patologie psichiatriche (circa il 66% di tutti gli ospiti adulti).
Come si può notare i dati riferiti sono aggregati e questo impedisce un’analisi dettagliata e in qualche caso possono indurre a inferenze sbagliate, per esempio sulla dimensione delle strutture: se consideriamo i dati sopra riportati sembrerebbe che la dimensione “media” di ogni struttura sia di 30 posti, ma la media non evidenzia la realtà di strutture di enormi dimensioni – il Pio Albergo Trivulzio, tristemente assurto all’onore (?!) della cronaca, conta nelle sue diverse articolazioni 1.200 ricoverati e anche tra le residenze solamente psichiatriche vi è per esempio l’Istituto Bassano Cemonesini di Pontevico (BS) che ospita 320 donne con patologia psichiatrica – accanto a strutture di piccole e piccolissime dimensioni (per esempio appartamenti protetti che pure esistono) e il dato medio risulta quindi falsato. In linea generale si può stimare che la maggior parte delle residenze abbia tra i 70 e 100 posti.
Vero è che non è agevole addentrarsi nell’analisi di questa realtà, anche per il modo con cui questa viene “fotografata” nei report ufficiali. Nel report dell’ISTAT al 31 dicembre 2015 (l’ultimo disponibile) vengono riferiti 12.828 presidi residenziali socio-assistenziali e socio-sanitari attivi In Italia; essi dispongono complessivamente di 390.689 posti letto (di cui circa 21.000 per minori!) con oltre due terzi dei posti letto complessivi (75,2%) costituiti prevalentemente da “unità di servizio” che erogano prestazioni di tipo socio-sanitario.
Si riporta inoltre che tra gli adulti (18-64 anni) prevalgono gli uomini, che costituiscono il 63% dell’intero collettivo, e il motivo del ricovero è legato principalmente alla presenza di disabilità o di patologie psichiatriche (circa il 66% di tutti gli ospiti adulti).
Come si può notare i dati riferiti sono aggregati e questo impedisce un’analisi dettagliata e in qualche caso possono indurre a inferenze sbagliate, per esempio sulla dimensione delle strutture: se consideriamo i dati sopra riportati sembrerebbe che la dimensione “media” di ogni struttura sia di 30 posti, ma la media non evidenzia la realtà di strutture di enormi dimensioni – il Pio Albergo Trivulzio, tristemente assurto all’onore (?!) della cronaca, conta nelle sue diverse articolazioni 1.200 ricoverati e anche tra le residenze solamente psichiatriche vi è per esempio l’Istituto Bassano Cemonesini di Pontevico (BS) che ospita 320 donne con patologia psichiatrica – accanto a strutture di piccole e piccolissime dimensioni (per esempio appartamenti protetti che pure esistono) e il dato medio risulta quindi falsato. In linea generale si può stimare che la maggior parte delle residenze abbia tra i 70 e 100 posti.
Queste strutture sono di fatto delle grandi istituzioni, frutto della ideologia assistenziale/benefica dell’Ottocento come lo era il manicomio e come questo ne condividono l’ideologia che è alla base della loro gestione: sono quindi strutture autoreferenziali, autocentrate, separate dalla vita sociale in cui, nonostante il tentativo di accreditarsi attraverso la creazione al loro interno per esempio di attività di tipo riabilitativo (prevalentemente fisico, nella maggior parte dei casi), la stragrande maggioranza dei ricoverati staziona senza un progetto di vita e/o di reale riabilitazione anche se, come detto, in molte si svolgono attività – dai laboratori creativi (abbiamo visto i patetici cartelli Andrà tutto bene disegnati dagli ospiti su cartoni o lenzuoli appesi alle finestre della RSA), alle attività ricreative (sempre frequentate da una minoranza di ospiti) – cosiddette “riabilitative” che hanno le caratteristiche delle pratiche di “intrattenimento” di memoria manicomiale, un intrattenimento che significa sia “tenere dentro” sia “far passare piacevolmente il tempo” (B. Saraceno, La fine dell’intrattenimento, ETS Libri, 1995); nulla che significhi per l’ospite (o paziente) “la costruzione dei suoi diritti sostanziali ed è dentro tale costruzione (affettiva, relazionale, materiale, abitativa, produttiva) che sta l’unica possibile Riabilitazione” (ibid.). Se manca questa visione l’intrattenimento è solo funzionale al “parcheggio in attesa della morte” alla legittimazione della logica del posto letto, del “dove lo metto” l’anziano oramai privo di potere contrattuale e di prospettive di vita per altrui decisione, alla sua passivizzazione: guarda caso è clamorosa l’assenza della voce del ricoverato in tutto il panorama mediatico, fatta salva la lettera/testamento – presentata inizialmente a conclusione di un servizio sulle RSA lombarde da Mentana su La7 il 23 febbraio scorso e poi variamente ripreso su diverse testate – di un anonimo ospite che scrive:
«…Certo, non potevo mai immaginare di finire in un luogo del genere. Apparentemente tutto pulito e in ordine, ci sono anche alcune persone educate ma poi di fatto noi siamo solo dei numeri, per me è stato come entrare già in una cella frigorifera…Ma vorrei che sappiate tutti che per me non dovrebbero esistere le case di riposo, le RSA, le “prigioni” dorate e quindi, sì, ora che sto morendo lo posso dire: mi sono pentito. Se potessi tornare indietro supplicherei mia figlia di farmi restare con voi fino all’ultimo respiro…La mia dignità di uomo, di persona perbene e sempre gentile ed educata è stata già uccisa. Sai Michelina, la barba me la tagliavano solo quando sapevano che stavate arrivando e così il cambio…prima del coronavirus c’è un’altra cosa ancora più grave che uccide: l’assenza del più minimo rispetto per l’altro, l’incoscienza più totale. E noi, i vecchi, chiamati con un numeretto, quando non ci saremo più, continueremo da lassù a bussare dal cielo a quelle coscienze che ci hanno gravemente offeso affinché si risveglino, cambino rotta, prima che venga fatto a loro ciò che è stato fatto a noi…».
In tutto il dibattito su Covid e RSA ci si è fermati all’epifenomeno, le morti, senza andare a coglierne la causa; ancora una volta abbiamo guardato il dito e non la luna: la realtà delle strutture, le loro dimensioni, la spersonalizzazione degli ospiti (che sarebbe più proprio chiamare internati, come quelli del manicomio), la logica sottesa alla creazione di queste strutture (per inciso gestite al 70% da privati, segno dell’abbandono del “pubblico” di questo “scarto” umano e spesso all’insegna del solo risparmio).
Questa logica, aziendalistica, è tanto più evidente nelle condizioni in cui si è sviluppato negli ultimi decenni il welfare, più attento all’economia di scala che al destino delle persone, da qui il proliferare di strutture di grandi dimensioni in cui gli aspetti relazionali – affettivi, materiali e di salute (al di là delle singole realtà regionali) – cedono di fronte alla logica del profitto.
È stato questo un trend che si è andato affermando praticamente in tutte le Regioni, anche in quelle considerate “virtuose”, come se fosse l’unica soluzione compatibile con le esigenze di bilancio degli enti preposti alla gestione degli anziani, dei disabili, dei “cronici” e dei non autosufficienti, senza che questa impostazione sia mai stata sottoposta a verifica o siano state ricercate e sperimentate, se non in forme limitatissime, esperienze alternative a questo modello.
Forme che pure potrebbero esistere ed essere sostenibili e vantaggiose, sia per gli utenti che per gli enti gestori, anche da un punto di vista economico. Forme che rispondono al sentire comune come testimonia la lettera (La Repubblica, 5 maggio 2020) di un “potenziale” futuro utente di RSA (così si presenta) che indica anche le alternative: «…la strage di anziani nelle RSA ci deve obbligare a ripensare il modello di società che vogliamo costruire. Gli anziani in istituto vivono peggio, sono meno curati e costano, per assurdo, di più rispetto ad altre forme di assistenza più umane e familiari, quali un sostegno per rimanere a casa…la creazione di reti di prossimità, potenziare i servizi sanitari domiciliari, la telemedicina e il ruolo del medico di base, o forme di co-housing di cui abbiamo esempi ma che dovrebbero essere un modello su larga scala. Da cittadino e da futuro (ma non troppo) anziano, sento di dover reagire. Lo dobbiamo alle vittime di Covid, ai familiari, ma anche a noi stessi.»
Sono le stesse indicazioni richiamate nel citato articolo di Giannichedda, dove si auspica un superamento delle attuali forme della residenzialità sociale, in favore di «modelli di servizio e sistemi locali sociali e sanitari che dimostrano, dati e costi alla mano, che un’abitazione piccola per 5 -6 persone funziona meglio di una RSA, anche per un anziano non autosufficiente…che il servizio pubblico ha bisogno della comunità di cui fa parte, dei suoi utenti, dei cittadini organizzati non solo dei professionisti e degli enti che erogano regole e risorse…».
Sono gli stessi principi della proposta di legge di iniziativa popolare (una rarità nel panorama legislativo italiano e sostenuta come previsto dalla legge da oltre 5000 firme di cittadini) che nel 2009 il Centro di Promozione della Salute “F. Basaglia” di Arezzo propose alla Regione Toscana; in essa si prevedeva una “Residenzialità sociale senza emarginazione”, basata su “Prossimità, vicinanza, familiarità” che sono i riferimenti che meglio esprimono quella nuova cultura della persona «nata dalla storia della lotta contro le istituzioni chiuse e separate, dall’esame critico delle realtà dell’emarginazione ancora esistente e sempre riemergente, dalla valorizzazione delle esperienze di apertura e di inclusione sociale corrispondenti ad una nuova sensibilità etica e sociale e, più in generale, dalla esigenza di qualificare la vita delle persone moltiplicandone i rapporti nei contesti sociali» (dal Documento di accompagnamento della proposta di legge); a questa proposta il Centro dedicò un Convegno nel giugno 2009 in cui furono illustrate, sulla scorta di alcune esperienze già attuate, anche le compatibilità economiche delle piccole residenze prefigurate nella legge. Nonostante questo la Regione Toscana ritenne di non portare nemmeno in dibattimento nel Consiglio Regionale la proposta di legge che rimase quindi lettera morta, mentre anche in Toscana hanno continuato a prosperare residenze di grandi dimensioni.
Se vogliamo trarre qualche insegnamento dalla tragica vicenda del Covid-19 nelle RSA italiane, è il momento di avere uno “sguardo lungo”, di “guardare la luna”, di valorizzare le esperienze di domiciliarità diversa, di piccole dimensioni e di creare una rete di operatori, amministratori, cittadini che si battano contro le RSA di grandi dimensioni, neo-manicomiali in favore di strutture piccole dove si possano realmente valorizzare anche le persone più fragili rispettandone innanzitutto l’individualità e la dignità.
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