[articolo uscito su Il Piccolo il 12 aprile 2020]
Il virus sembra riportare tutti a un’unica condizione. Un ordine superiore cui dobbiamo soggiacere grava sulle nostre teste. La nostra singolarità svanisce obbligati come siamo a restare dentro, ridotti a una sola dimensione. Come un tempo i matti dietro le mura. Noi, reclusi per una ragione che bene o male riconosciamo e condividiamo; i matti oggi, a chiedere disperatamente una ragione ancora internati dietro le mura invisibili della follia e delle nuove istituzioni che fanno fatica a cadere.
Il virus sembra renderci tutti uguali, matti e sani. Ma basterebbe fermarsi solo un attimo per cogliere l’oscenità delle diseguaglianze, delle lontananze, delle separazioni che sono (e sono state) sempre davanti ai nostri occhi distratti e indifferenti. Il virus ha illuminato, esasperato e fatto esplodere distanze incolmabili. Non posso non pensare alle persone che vivono l’esperienza del disturbo mentale chiuse in casa costrette all’isolamento. La Pandemia, come è giusto che sia, prende il sopravvento, mobilita risorse e operatori. I servizi di salute mentale, in ogni regione già fragilissimi, riducono i tempi di apertura, chiudono i centri diurni, solo in emergenza le visite nelle case delle persone.
Non uso lamentarmi, in questo momento poi. Si sa, le persone che vivono l’esperienza del disturbo mentale sono da sempre all’ultimo gradino della scala sociale, all’ultimo posto nelle attenzioni dei governi, delle amministrazioni regionali, delle aziende sanitarie. La quarantena per tanti diventa più complicata, più triste, più invivibile. Sto scrivendo da una casa luminosa, con i libri sugli scaffali, con una bella vista sul mare, circondato da persone che amo. Ricevo telefonate da chi ho conosciuto e frequentato negli anni passati tra San Giovanni e il Centro di salute mentale. Tra silenzi imbarazzati e con parole faticose mi dicono poche cose dalla loro modesta quotidianità. Hanno trovato il coraggio di chiamarmi, dicono, «così, senza una ragione».
La diseguaglianza si presenta nella sua evidente concretezza. Non posso non figurarmi la casa da dove mi arriva la telefonata e le case delle periferie, qui a Trieste come a Milano, a Bari, a Salerno dove famiglie o persone sole vivono in 30, 40, 50 mq. Mi figuro la mamma vecchia ormai, e grassa, seduta nella piccolissima cucina. Col suo corpo, ma non solo, domina tutto lo spazio e ammette a stento la presenza del figlio ormai cinquantenne che, malgrado tutto, riesce a tenere cinque ore di lavoro al giorno nella cooperativa. La cooperativa è chiusa in questi giorni. Anche al Centro di salute mentale non si può andare, e nemmeno al Centro diurno o ricevere una visita, e neanche al bar sotto casa. Immagino il peso crescente della vicinanza, immagino l’uomo che fuma una sigaretta, e poi due e poi tre e la mamma: «Quanto fumi, ne hai fumate già tre, qui non si respira più, spegni quella sigaretta!». E poi lagnosa e risentita, «Mai che ascolti quello che ti dice tua madre!».
Vorrei che con la magia e l’azzurro il Cavallo toccasse le tante porte delle periferie e facesse soffiare libera la brezza di primavera. La primavera che come se non si fosse accorta di niente è arrivata e nei prati sono fiorite le margherite.
«Voglio divertirmi – canterebbe Marco Cavallo – a correre, volare e sui prati andare a cavallare.»
2 Comments
Grazie per questo articolo. Ha rinnovato nel mio ccuore esacerbato forza e speranza, coraggio e consapevolezza che non siamo soli.
Silva Bon
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