Illustration by Naomi Wilkinson
Luca Negrogno intervista Roberto Mezzina
L’emergenza Covid-19 ha mostrato la debolezza dell’impostazione territoriale nei nostri servizi; ora bisogna ripensare il futuro della Salute Mentale pubblica con più investimento territoriale. Inoltre è necessario inventare nuove forme di welfare.
Roberto Mezzina è stato Direttore dei Servizi di Salute Mentale di Trieste, un centro che collabora con l’Organizzazione Mondiale della Sanità e tiene vivo l’approccio basagliano alla salute mentale. Gli chiediamo cosa sta succedendo oggi.
I servizi sono in una fase difensiva. In molte regioni sono stati chiusi di imperio ambulatori, servizi territoriali e centri diurni e il rischio ora è di dimenticare le persone più sole. In alcune regioni il Terzo Settore sta continuando a fornire sostegni domiciliari ma in condizioni estremamente difficili.
Ci sono segnalazioni sin dai primi giorni di lockdown di un impatto molto pesante sui servizi: mentre questi sono stati sovradeterminati dalle regole di prevenzione dell’infezione, e hanno accettato di allentare i legami sociali e terapeutici – tra servizio e utenza, tra individui e gruppi – si è diffusa la parola d’ordine state buoni a casa, vi telefoniamo. In pratica molte situazioni sono state lasciate a una sorta di autogestione dei singoli, delle piccole comunità o delle famiglie. Il tema delle famiglie è pesantissimo, come è stato già segnalato dall’UNaSaM, per questo con alcuni colleghi stiamo affermando che, oltre a indicazioni di igiene pubblica in senso stretto, sono necessarie indicazioni di atti terapeutici da eseguire per non lasciare sole le persone. È stato questo il senso del documento che ho poi proposto alla Conferenza Nazionale per la Salute Mentale che l’ha in massima parte adottato.
È stata totalmente interrotta la dimensione sociale dell’assistenza?
I servizi, diventati asettici, si sono ritirati in una condizione di difesa che ha fatto emergere la cronica insufficienza delle nostre risorse. Sappiamo che le persone con maggiore svantaggio sociale, le persone senza reddito, i cui bisogni primari minimi venivano assorbiti dai servizi territoriali, ad esempio attraverso pasti, sussidi, borse di lavoro, stanno soffrendo tantissimo, soprattutto dove non c’è la famiglia o dove le famiglie non sono in grado di sopperire a questi bisogni. Certo se è vero da una parte ciò che era noto e che si dice in questi giorni, che in situazioni di emergenza come questa le persone con disturbo mentale vedono “normalizzata” non solo la loro condizione di isolamento sociale, ma la loro stessa angoscia che è indirizzata verso una comune minaccia, e vi rispondono in maniera adeguata, dall’altra i guasti irreparabili e le condizioni insostenibili arrivano sul lungo periodo, come sappiamo dalle esperienze di salute mentale di guerra. Benedetto Saraceno ha ricordato la condizione delle persone abbandonate nei manicomi, nella prima guerra in Iraq: in una prima fase le persone sviluppano una grande capacità di autogestirsi ma poi con il tempo non arrivano più risorse e la situazione diventa catastrofica.
Ma cosa accadrà nella cosiddetta fase 2?
Dobbiamo prepararci, i nostri servizi sono già la pallida ombra di quello che erano, sono entrati in un “grande sonno”, quindi dobbiamo pensare subito a chi tutelare e come sviluppare forme nuove di intervento, ad esempio rispondendo ai bisogni primari in forma integrata con i servizi sociali e il terzo settore. Il governo centrale deve esprimere nuovi livelli essenziali di assistenza, rivolti a garantire le cure e i servizi essenziali a chi ne ha bisogno, e per questo deve interagire in maniera molto attiva con le Regioni, perché la frammentazione attuale è già un problema molto grande della Salute Mentale in Italia.
Quali sono i rischi maggiori?
Mi arrivano segnalazioni da tutta Italia di aziende sanitarie che stanno istituendo luoghi di “doppio isolamento”, Covid-psichiatria: si creano aree di ulteriore ghettizzazione dei malati psichiatrici positivi al coronavirus. Persone messe in isolamento nei servizi di diagnosi e cura, l’invenzione di servizi di salute mentale speciale per pazienti psichiatrici con infezione da coronavirus, sono esempi di un approccio sbagliato e insostenibile. Così pure le strutture identificate per le quarantene dei positivi Covid devono valere per tutti.
Inoltre sarà importante non psichiatrizzare il disagio che verrà dopo, nella seconda fase, che avrà radici non solo nelle perdite umane e nei lutti, ma soprattutto nell’insicurezza sociale ed economica.
Può spiegare meglio questo rischio di psichiatrizzazione?
Una sanitarizzazione spinta, come quella che stiamo vivendo, distrugge la dimensione sociale, propone risposte minimali e specialistiche, ed è il rischio della fase dell’emergenza. Ma già ora uno stuolo di università italiane, con l’ISS, propone una ricerca di popolazione che, mentre ne indaga l’impatto in termini più ampi, intende identificare sintomi e sindromi, col conseguente ulteriore rischio di produrre risposte individuali, parcellizzate e codificate in senso psichiatrico, e quindi principalmente farmacologiche. Ma da questa situazione si potrà venir fuori soprattutto in maniera collettiva, accettando il dato sociale di una condivisione della sofferenza, che è diffusa, ma che impatta in maniera differente a seconda delle condizioni sociali.
Mentre mai come ora inizia a rendersi evidente il tema dei determinanti sociali di salute e di malattia, dal canto nostro dobbiamo immaginare come riproporre quella dimensione sociale della psichiatria, che invera la salute mentale di comunità, per cui abbiamo lottato in questi anni, ma in un modo nuovo e integrato. Per fare un esempio, sono ora sospesi sia i setting ambulatoriali, prediletti dalla psichiatria stanziale, ma anche gli interventi domiciliari auspicati comportano rischi di trasmissione del virus. Bisogna minimizzare questi rischi, e istituire ora nuovi modi per arrivare alle persone nei contesti di vita, e per creare nuovi media di comunicazione. Ma la comunicazione da sola non risolve né realizza la dimensione sociale, che è fatta di materialità di vita, di risposta a bisogni, materialistici e postmaterialistici, e non solo di relazioni, peraltro ora prevalentemente virtuali. La nuova sfida è fatta da un corpo organico e insieme da un corpo sociale, che sono intrinsecamente legati, come scrivevano Franca e Franco Basaglia.
Come ci si sta preparando?
Il nuovo piano d’azione globale per la salute mentale dell’OMS 2020-2030, in preparazione, riporta per la prima volta il capitolo sulla salute mentale nelle emergenze e nelle catastrofi. È un target nuovo che per la prima volta compare in modo netto, considerando le migrazioni, le guerre e le carestie; l’OMS dice ai paesi di essere preparati alle catastrofi, è necessario un piano che funzioni durante e anche dopo, per l’impatto che si abbatte sul medio e lungo periodo sulle comunità. È inutile accorpare tutti gli interventi sotto il cappello del Disturbo Post Traumatico da Stress. Come è già successo in situazioni di guerre e catastrofi, arrivano stuoli di professionisti che praticano tecniche; le tecniche si affermano e si nasconde la dimensione reale della sofferenza. Anche l’OMS ha chiarito nelle sue linee guida per le catastrofi (versione tradotta da Emilia-Romagna e Lombardia) che è necessario concentrarsi sui bisogni immediati, anche sociali. Bisogna stare attenti alla tecnicizzazione dei problemi. Mi ha colpito a questo proposito la grande emersione di reti private di psicologi che forniscono intervento specialistico sull’emergenza; è importante che i nuovi servizi nazionali si ristrutturino disincentivando una corsa ulteriore al privato e anche alla dimensione solo individuale della sofferenza. Se si tratta di un bisogno pubblico, della moltitudine, deve essere gestito dal pubblico.
Residenze sociosanitarie, istituzioni per disabili e anziani si stanno rivelando in queste ore luoghi molto vulnerabili: si tratta di una tragedia annunciata?
È un po’ come se fosse venuta al pettine una questione denunciata da anni: quanto più i modelli di presa in carico si basano su agglomerati di persone che vivono insieme e stanno in una dimensione di totalizzazione della loro esistenza, tanto più si viene colpiti dai problemi. Anche l’OMS chiede di fare attenzione agli istituti. Ormai sappiamo che è possibile fare a meno di queste comunità artificiose, sono superabili; oggi il virus fa da cartina di tornasole di questo. Helen Killespy, responsabile della riabilitazione psicosociale del Royal College degli psichiatri inglesi, ha scritto che nei circa 34000 posti che ci sono in Gran Bretagna nelle residenze si rischia un massacro, come da noi sta avvenendo nelle case di riposo e nelle RSA: c’è una situazione di totale abbandono e mancanza di presidi minimi. Si sta mostrando un mondo che va alla deriva. Forse in Italia c’è un maggiore coordinamento con il servizio pubblico e quindi meno abbandono, ma il tema c’è ed è un problema generale. Si deve passare a modelli di supporto alla vita indipendente, come afferma la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità.
Torniamo al tema dei nuovi modelli di welfare.
Forse è il momento che il mondo della salute mentale torni a dare indicazioni al welfare tutto: non possiamo trovarci come psichiatria a gestire situazioni socioeconomiche che il welfare non è riuscito ad assorbire. Lo vediamo nelle periferie del mondo: le grandi masse che vivono ai margini delle città e diventano popolazioni a rischio di sopravvivenza. I determinanti sociali di salute diventano qui una cosa molto concreta: il disagio diffuso della popolazione andrà letto attraverso questi assi. È anche una riflessione che facciamo guardando ai nostri pazienti, e stiamo condividendo tra professionisti, per esempio con l’AIRSAM e con Raffaele Barone. Facciamo un esempio: in questo momento i progetti territoriali di inserimento lavorativo sono stati sospesi, si tratta di una catastrofe assoluta dal punto di vista sociale e terapeutico. Questi programmi di opportunità danno senso alla vita delle persone ma anche aiutano il loro reddito. Noi che abbiamo costruito servizi territoriali abbiamo visto che molte persone con lunghe storie di contatto con i servizi di salute mentale vivono in condizione di indigenza: a Trieste ci sono molte persone che sopravvivono grazie al fatto che nei centri di salute mentale o nelle microaree si possa andare a mangiare. Se questi spazi non sono utilizzabili queste persone hanno prima di tutto perso risorse sociali. Molti dei nostri pazienti non accedono a nessuna forma di welfare che non sia quello gestito dai servizi di salute mentale. Sicuramente questa situazione impone un ripensamento del welfare. Bisogna fare proposte innovative e non pensare solo ai dispositivi protettivi; siamo ancora in una fase difensiva, ma in questo momento bisogna pensare da subito a nuovi strumenti.
Immagina un cambiamento non solo in termini di risposte emergenziali ma come cambiamento strutturale?
Una presa di posizione dal nostro mondo su nuove forme universalistiche di sostegno al reddito non come politica di emergenza ma come nuovo approccio al welfare è una questione sul tavolo, è necessario un dibattito pubblico innovativo. Noi in salute mentale vediamo l’insufficienza di modelli di welfare fondati sull’asse “produttività/improduttività”. Per chi ha avuto a lungo problemi di salute mentale e non è entrato nel mercato del lavoro, non c’è accesso alla maggior parte degli strumenti di welfare che noi abbiamo, ed è una situazione che si è leggermente modificata solo grazie al reddito di cittadinanza. Si tratta di sopravvivere con una pensione di invalidità di 300 euro al mese. Questo modello non è più sostenibile. Se inventiamo qualcosa di nuovo potrebbe emergere una salute mentale davvero, e di più, di comunità.
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