C’è un gran silenzio in città in questi giorni. Anche l’aria sembra diventata più respirabile.
In questo tempo dilatato oltremisura si aprono ampi spazi di riflessione, ma ricucire relazioni, provare a moltiplicarle, cercando di fare comunità e società, non è facile. Il distanziamento sociale ha modificato le consuetudini delle tante attività organizzate e presenti in città. Ciò che rimane è certamente l’interesse a non lasciare sole le persone e a non troncare le tante relazioni in corso creando, anche attraverso i nuovi canali di comunicazione, espedienti per continuare l’azione.
C’è inoltre un’opportunità che si dovrebbe cogliere. Provare a riordinare le priorità e tentare di comprendere come questa crisi interagisca con le rappresentazioni del sociale che certamente si trasformeranno e come, in questo senso, tale crisi possa diventare opportunità ri-generativa.
Per fare questo credo sia utile riprendere alcuni fondamenti. In che contesto si colloca l’azione sociale? A quali bisogni risponde? Quali sono le priorità di un’azione efficace prima che efficiente?
Ragioniamo sul distanziamento sociale, misura preventiva di salute pubblica: è azione indicata dall’autorità pubblica, a protezione delle persone, di medicina preventiva per contrastare la pandemia. In questa misura come in tutte le azioni sociali convivono due campi: l’ordine, il controllo, la disciplina dei corpi e il richiamo alla partecipazione nella responsabilità del legame sociale, alla comunità, alla società; comprendere che i comportamenti di ognuno hanno sempre una ricaduta sugli altri. Ecco collocato il sociale in una democrazia costituzionale. Funzione pubblica di protezione per le persone, dove l’azione per il legame sociale deve sovradimensionare quella di ordine e di controllo per promuovere percorsi di cittadinanza, per diffondere responsabilità e senso civico. Uno strumento che consenta a ognuno di partecipare alla società nella differenza che esprime.
In questo senso la crisi del Covid-19 trova la maggior parte dei nostri sistemi di protezione svuotati di questi valori e ricondotti, da anni di egemonia culturale del mercato e del profitto, a sistemi orientati a riconoscere la salute solo come bene individuale e non collettivo. Le politiche di welfare ed in particolare quelle per la salute sono state gestite con scarsa lungimiranza, ma in questi giorni l’impegno che la parte migliore del paese è generosamente pronta a condividere per il bene comune esprime una diversa consapevolezza. Anni di tagli, di privatizzazione e di frammentazione del Sistema Sanitario Nazionale recano danni non solo alle persone travolte dalla pandemia ma all’intero sistema Paese.
Da anni le pratiche di medicina preventiva che insistono sulle cause delle malattie, quelle ambientali e socioculturali, attraverso il lavoro sul territorio integrato e a bassa tecnologia (famiglia, scuola, lavoro, alimentazione, verde pubblico, abitazione, urbanistica, sport, tempo libero), sono state dismesse e frammentate in diversi piccoli localismi. Si è preferito costruire salute, o meglio contrasto alla malattia, attraverso la centralità dell’ospedale e della medicina specialistica ad alta intensità tecnologica, dove poter comodamente indirizzare interessi privati e profitto individuale e vendere efficacia attraverso l’esibizione dell’efficienza delle prestazioni; si pensi a quanti esami inutili facciamo ogni volta che ci tira un pelo. Si pensi a cosa è diventata la medicina di base: da potenziale avamposto nel territorio per costruire responsabilità per la salute e osservazione epidemiologica a semplice ufficio di indirizzo verso la medicina specialistica.
Tutto questo è avvenuto in ordine al mito che guida le nostre esistenze da anni, quello della libertà, diffuso in modo perverso, tutto a favore dell’individuo consumatore. Il consumatore è nemico del cittadino, dice Bauman, in questo modo siamo stati proiettati nel mondo dei balocchi, costruendo libertà immaginaria, svincolando questo valore da eguaglianza e fraternità. Lo ha ben scritto domenica scorsa Massimo Recalcati su Repubblica: la libertà scissa dalla solidarietà è puro arbitri, la libertà è sempre iscritta in un legame.
In questo senso dovremmo recuperare una posizione più equilibrata.
Oggi il virus ci dà l’opportunità di vedere come l’azione sociale collettiva e responsabile possa proteggere ognuno di noi, riscoprendo anche piccoli gesti quotidiani a cui non facevamo più caso: lavarci le mani, comprendere l’importanza dei dispositivi di protezione individuale, la pulizia dei luoghi pubblici, i dispenser per il sapone nei bagni delle scuole e via via tante altre pratiche di buon senso che restituiscono responsabilità nel costruire una società a misura di uomo.
Ognuno di noi si trova coinvolto, per paura o responsabilità, nell’azione del distanziamento sociale. Questa sarà l’azione che potrà spegnere la pandemia in corso e che potrà permettere alla medicina specialistica ospedaliera di svolgere bene la sua funzione.
Convivere con una paura reale può essere l’occasione per riprendere discorsi abbandonati da tempo, perché la protezione di ognuno passa attraverso una protezione universale, accessibile, il più possibile condivisa. In questi anni viceversa, sostenendo solo l’azione della medicina ospedaliera e specialistica verso la malattia e annichilendo quella preventiva, si sono divisi i campi separando tecniche e operatori, irrigidendo le connessioni tra l’azione sulle persone e quelle sull’ambiente. Sembra venuto il momento di cambiare paradigma riprendendo un’azione sociale nel territorio, condivisa con la cittadinanza, attraverso programmi di prevenzione e di educazione. Queste due azioni non possono più essere separate, vanno riorganizzate ed apprese in modo complementare, strategico, programmate da una regia pubblica e trasparente di cui oggi le persone più responsabili cominciano a sentire la necessità. Confidiamo anche in loro.
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