I Servizi di salute mentale, che nella migliore delle ipotesi si sono sviluppati nella comunità, nelle relazioni, nei contesti, e hanno fondato il lavoro di cura e di riabilitazione sulla socialità, sull’incontro, sull’esserci tutti, vivono oggi una profondissima crisi: sovrastati dalla necessaria attenzione all’epidemia, sono ridotti a poco più che ambulatori e i luoghi dell’abitare o della cura in ospedale rischiano di essere dimenticati e abbandonati. Tanto di più di quanto non accada già senza la complicità del virus. Ma di questo parleremo ancora.
Di Peppe Dell’Acqua, 2005/2020
Era il mese di aprile del 1975 quando cominciò la sua attività il primo Centro di salute mentale in Italia. L’ospedale psichiatrico era ormai aperto e, con i Centri di salute mentale funzionanti ventiquattr’ore al giorno, avrebbe visto la sua definitiva chiusura di lì a pochi anni. Che tutto questo potesse accadere era impensabile. Da allora l’attenzione (e l’occhio incredulo e scettico) del mondo, non solo e non sempre delle psichiatrie, non ci ha mai abbandonati. Le psichiatrie, gli accademici, gli opinionisti di ogni ordine e grado, senza mai rendersi conto di quanto stava accadendo sul campo, negavano il valore di quella esperienza (e della più ampia e radicale trasformazione in corso nel Paese), chiamavano a sostegno tutte le ideologie oscurantiste del più arcaico positivismo scientifico: la natura somatica della malattia mentale, la impenetrabile certezza della diagnosi, la pericolosità, l’abbandono, il suicidio. Il cinismo e il pessimismo più devastante della radice biologica della psichiatria del ‘900 dominavano il campo dell’indifferenza delle politiche e della presupponenza delle lobbies.
I cambiamenti avvenuti nel corso di ormai mezzo secolo sono davanti agli occhi di tutti. Riconosciuti e apprezzati da istituzioni e governi di tutto il mondo (dall’Oms alla California e tanto altro) continuano tuttavia a essere negati da una cospicua parte del mondo così detto scientifico. Non ci sono evidenze dicono, e dicevano allora, o meglio si trova poco in letteratura; tutto ciò che si trova su Trieste (e sul Paese in generale) è soltanto aneddotica, dicono. Narrazione, anche ricca ed emozionante.
In questi giorni molti colleghi, amici e compagni della straordinaria avventura che ho avuto la fortuna di vivere nel corso di più di mezzo secolo mi hanno segnalato l’articolo di Mauro Carta, Matthias Angermeyer e Anita Holzinger, Salute mentale in Italia: le ceneri di Basaglia nel vento della crisi dell’ultimo decennio su International Journal of Social Psychiatry. Dalle conclusioni: «Trieste è forse il servizio sanitario più famoso al mondo, ma dov’è questa esperienza in letteratura? Uno degli autori ha trascorso due periodi a Trieste nel 1985 e nel 2005, il secondo di 6 mesi. Il clima lavorativo è stato fantastico: l’energia che è emersa dal personale è andata al benessere delle persone che necessitavano di cure. Ma non restano che aneddoti. Questa nostra breve recensione, sebbene sistematica, non può mostrare un quadro esaustivo di tutto ciò che è stato prodotto su Trieste. Tuttavia, è ciò che accade se si cerca qualcosa in letteratura su Trieste». Mi accingo a dare ancora una volta una risposta, sicuro che non basterà, e in premessa devo ricordare agli autori che la trasformazione a Trieste (e in Italia) ha a che vedere con un radicale cambiamento di sistema, di paradigma, di culture. La malattia messa tra parentesi favorisce l’irruzione sulla scena di presenze (cittadini, individui, persone) fino ad allora negate proprio dalla psichiatria.
Basaglia avrebbe detto «venite a vedere» e io non posso che continuare a narrare.
Franco Basaglia aveva cominciato il suo lavoro a Trieste nell’agosto 1971 e per quattro anni l’Ospedale Psichiatrico di San Giovanni si era trasformato in un grande cantiere. Tutto quello che accadrà nei 10 anni successivi accadde in quegli anni: dalla prima cooperativa, che solo dopo si chiamerà sociale, ai gruppi di convivenza che diventeranno i luoghi dell’abitare insieme, al lavoro esterno (fuori dalle mura) che allude ai Centri di salute mentale che di lì a poco verranno. Per la prima volta un manicomio si dotava di automobili e gli infermieri uscivano per accompagnare a casa le persone.
I reparti fino a quel momento organizzati per diagnosi omogenee, o meglio per gradi e definizioni di comportamenti, vennero rimescolati. I tranquilli, gli agitati, i violenti, gli infermi, i sudici, gli osservandi vengono aggregati per territorio di provenienza e cominciano a diventare cittadini. La città, 300 mila abitanti allora, 230 mila oggi, venne suddivisa in 5 grandi zone di 60 mila abitanti; e così l’ospedale psichiatrico.
Cinque gruppi di lavoro cominciano a esplorare quelle zone della città, cercando legami, brandelli di storie da ricomporre, relazioni possibili. Si disse allora che gli operatori uscivano e attraversavano la città portando il matto sulle spalle.
Un esercizio questo, e una metafora, che qualificherà non poco il lavoro dei Centri di salute mentale che verranno. L’urgenza di vedere allontanarsi l’ombra del manicomio e di rompere irreversibilmente con quella storia attraversa ogni azione, ogni gesto.
Non c’è ancora la legge 180 e tuttavia una prima incerta cittadinanza comincia a costruirsi. Con fatica naturalmente. Anche le pratiche, le strategie e le politiche per sostenere quella cittadinanza, ora meno incerta e tuttavia a rischio delle persone con disturbo mentale, fonderanno il Centro di salute mentale. In molti ospedali psichiatrici, dove si sta sperimentando il cambiamento, andare fuori, mettere radici nel territorio sono imperativi assoluti. E impensabili sono le difficoltà, i conflitti da affrontare, le spaccature da sanare per sostenere i matti che ora possono abitare la città e che pongono l’urgenza e la radicalità dei loro bisogni, della loro singolarità finalmente ritrovata.
Nell’aprile del 1975 è Franco Rotelli ad aprire il primo Centro di salute mentale ad Aurisina, piccolo comune nella piccola provincia di Trieste. Una casa, una vecchia caserma dei carabinieri, poco distante dal confine jugoslavo, ospita 10 persone, uomini e donne, dimesse dall’ospedale. Per loro il Centro è un tramite per riprendere posto nel paese. Il Centro comincia a essere anche il luogo dove le persone possono andare per far sentire il proprio male, chiedere di essere accudite, ascoltate, comprese. È il luogo da dove gli operatori si muovono per andare là dove le persone vivono. Dopo pochi mesi, a Trieste, verrà il Centro di Barcola, e poi Muggia e via Gambini. E intanto c’è stata Nocera Superiore/Materdomini, Perugia, Gorizia, Città di Castello, Arezzo e di lì a poco verrà Ferrara, Reggio Emilia, Torino, Settimo Torinese, Caltagirone e tante altre piccole grandi esperienze che segnano quel passaggio: abbandonare l’ospedale, costruire possibilità nella comunità. La scommessa è agire concretamente il lavoro terapeutico nelle relazioni e nei luoghi di vita delle persone.
Per gli operatori che agiscono quel cambiamento la rotta è ben segnata dalla necessità di chiudere il manicomio, di interrogarsi su cos’è la psichiatria e sulla natura della follia. Tuttavia sono ancora poche e deboli le pratiche territoriali, non ci sono modelli e ancora meno esperienze radicate che possano aiutare e indicare una rotta certa.
Le scarne esperienze comunitarie inglesi e americane sono distanti non solo geograficamente. Per altro nascono sempre a valle di corposi manicomi. Anche il settore francese sembra confermare, se non rafforzare paradossalmente, la necessità del manicomio.
La radicalità della scelta di abbandonare il manicomio è comunque appassionante, porta a vedere lontano ma provoca inevitabilmente solitudine, alimenta distanze, rende incerto il cammino. Bisogna esplorare terreni sconosciuti, ridisegnare complesse cartografie, verificare rotte, rischiare sconfinamenti, avanzamenti, stallo, disorientamenti. Le accademie si muovono con ostentata ostilità, la Società italiana di psichiatria espelle Basaglia, timide (e interessate) politiche regionali si assoggettano alla prepotenza dei cattedratici. I Tribunali, le Magistrature non possono non condannare azioni che criticano nella pratica la legge vigente del 1904, il paventato disordine pubblico dei matti in libertà. Più di una volta Basaglia e tutti noi dobbiamo sopportare incriminazioni e processi. Il manicomio, in realtà, non è ancora definitivamente sparito. La legge è stata appena approvata, i progetti obiettivi arriveranno. Non ci sono regolamenti, non ci sono procedure scritte e condivise, non sono disegnate le strutture, si dispone di conoscenze epidemiologiche meno che frammentarie.
La parola guarigione è fuori dal lessico di quelle psichiatrie che stiamo cercando di abbandonare.
Roberto Mezzina comincia a essere impegnato nel lavoro di ricerca di strumenti e relazioni sul piano nazionale e internazionale, convinto assieme agli altri colleghi che bisogna disegnare una rappresentazione meno incerta. La scommessa ora è inventare e dare radici alle nuove istituzioni della salute mentale. Sarà il Centro di salute mentale, o qualcosa che a questa struttura, funzione, dispositivo rimanda, il luogo delle prime esperienze di ricerca e l’entusiasmo, gli interrogativi e la curiosità di quelle esplorazioni si riverserà in un numero cospicuo di lavori valutativi, descrittivi e di approfondimento epistemologico.
C’è già stato nel ’94, atteso da tutti, un primo Progetto Obiettivo che rende più concrete le indicazioni della riforma. Le Regioni hanno avuto il tempo di varare proprie leggi per la salute mentale. Il secondo Progetto Obiettivo (1999/2000) ha precisato finalità, modalità di funzionamento, procedure e organizzazione del Dipartimento di salute mentale. Più di una Regione ritarderà molto a varare una propria legge o peggio sotto l’influenza delle peggiori psichiatrie accademiche e di inconfessabili interessi di imprenditori privati matureranno progetti regionali di compromesso. Tra le altre, solo per esempio, la Sardegna nel 2007 non aveva ancora pensato a una sua legge regionale!
A differenza della maggior parte degli studi italiani che assumono servizi e modelli operativi di altri paesi, in genere anglosassoni e americani, come confronto i lavori prodotti a Trieste hanno dovuto riconoscere i passaggi del cambiamento (spesso assolutamente originali e innovativi) per connettere i risultati alla realtà italiana, alle dinamiche di sviluppo in atto, al processo di crescita non lineare dei servizi di salute mentale nella comunità e alla progressiva presenza dei soggetti sulla scena. Anche gli strumenti di valutazione adottati sono originali e non presi malamente a prestito da altri modelli, da altre culture.
Lo scopo dei lavori di ricerca e valutazione che si sono sviluppati negli anni è stato sempre quello di descrivere e confrontare modalità di accoglienza, percorsi di cura e di riabilitazione, programmi alla dimissione, di inserimento lavorativo, di organizzazione di vita autonoma, di sostegno al carico familiare. Di recente grande rilievo hanno assunto i programmi di ricerca intervenendo sulle forme di associazionismo, di protagonismo e di partecipazione delle persone che vivono l’esperienza. Le forme di risposta alla crisi, le strategie di abolizione della contenzione (a Trieste sono state abbandonate tutte le pratiche coercitive fin dai primissimi anni ’70), l’attenzione all’esordio nei giovani sono i temi che oggi maggiormente tengono il campo.
Il lavoro non avrebbe potuto procedere per tutti questi anni se non si fossero verificate ipotesi di nuove organizzazioni, si fossero messe a punto e descritte pratiche sensate tanto visibili nella loro banalità quanto purtroppo distanti da quanto accade oggi nella maggior parte dei Servizi di salute mentale in Italia e in Europa.
Queste alla fine le evidenze: più il territorio è popolato di servizi che costituiscono reti e sistemi coerenti, più i servizi dispongono di risorse differenti e talvolta inusuali, più sono in grado di utilizzare il posto letto territoriale nel Centro di salute mentale (come ultima risorsa), per esempio, più si propongono di evitare il ricorso passivo al ricovero nel Servizio ospedaliero di diagnosi e cura o, peggio, in cliniche private fuori dal circuito e fuori dalla rete, più sostengono la bassa soglia di accesso, più spostano l’asse dell’intervento verso il contesto dove le persone vivono, più invogliano gli operatori a lavorare in gruppo, più valorizzano tutte le persone presenti nel servizio, più il servizio si orienta alla recovery e con convinzione verso la comunità, maggiori sono i vantaggi per le persone con disturbo mentale, i familiari, gli operatori, i cittadini, le amministrazioni.
Si sono ridotti i tempi del trattamento nella fase acuta, i familiari vengono coinvolti, le persone accedono più facilmente a percorsi abilitativi e di ripresa, restano utilmente in contatto, diminuisce il numero e l’intensità delle ricadute, si usano meno farmaci, si alimentano le reti e le relazioni, cresce il numero delle persone che trovano posto in programmi di formazione lavoro, si è ridotto il rischio di stigmatizzazione e di esclusione.
Le persone con esperienza hanno assunto consapevolezza e hanno cominciato a prendere in mano le loro vite.
Eppure in conclusione non posso non condividere alcune riflessioni che gli autori de Le ceneri di Basaglia fanno sulle ultime decadi delle politiche di salute mentale in Italia (e aggiungerei nel resto dell’intera Europa).
Il declino oggi dell’attenzione alle politiche di salute mentale è una realtà amarissima. È davanti agli occhi di tutti lo smarrimento del necessario orientamento etico, l’approssimazione se non l’assenza di indirizzi governativi e di politiche regionali. La trascuratezza, se non peggio l’insensatezza, delle aziende sanitarie soltanto prese in manovre di rientro, ad accorpamenti di aree territoriali col miraggio di ridurre costi e risorse umane è sostegno delle mai abbandonate cattive pratiche. Tanto che in Italia, come in tutti i paesi europei «…gli psichiatri – scrive Saraceno nella prefazione al bel libro di D’Autilia, Dopo la 180. Critica della ragione Psichiatrica – continuano ad accettare ancora che i pazienti gravi e cronici non abbiano alternative decenti alle istituzioni e che siano seppelliti in residenze protette sempre più simili a manicomi oppure negli istituti privati e religiosi; gli psichiatri accettano che i servizi di diagnosi e cura pratichino normalmente la contenzione fisica, che i servizi territoriali riproducano logiche asfittiche e ambulatoriali, che le case farmaceutiche occultino i dati sfavorevoli ai farmaci che vendono, che, infine, il rigore delle evidenze scientifiche sia invocato sì, ma a giorni alterni, ossia quando conviene».
E anche Trieste, e la regione FVG, è mai come ora minacciata dalla grevità e dalla cecità delle politiche del governo regionale.
Questo testo è buona parte della prefazione a Crisi della psichiatria e sistemi sanitari. Una ricerca a cura di Roberto Mezzina con Daniela Vidoni, Maurizio Miceli, Corrado Crusiz, Annamaria Accetta, Gaetano Interlandi.