[articolo uscito su ilGiornale.it]
La vita è un oggetto contundente. Per tutti ma per qualcuno di più. Daniele, il ventenne protagonista di Tutto chiede salvezza (Mondadori) di Daniele Mencarelli, finisce in Trattamento sanitario obbligatorio per un tentato suicidio finito in uno scoppio d’ira incontenibile.
Siamo dunque nel reparto psichiatrico di un piccolo ospedale di provincia, dove la lingua ufficiale è il romanesco. Per i corridoi si aggirano malati più o meno gravi, per una settimana almeno costretti a condividere uno spazio piccolo, sei letti per ogni stanza, in contatto continuo con la propria malattia, nella testa, ma anche in contatto continuo con la malattia altrui. Una porta chiusa a chiave consente incontri limitati con amici e parenti, ma non è solo la chiave a chiudere dentro i pazienti, sono anche l’imbarazzo, la vergogna, il senso di colpa. Daniele ha un’arma segreta, la poesia, che coltiva in silenzio, lontano da occhi indiscreti, anche se finirà col leggerla ai suoi nuovi, occasionali amici, un pubblico più ricettivo di quello deputato a giudicare i versi per motivi professionali. Non bisogna dimenticare gli infermieri e i medici, anche loro sono chiusi dentro alle vite dei malati, convivono con il dolore e devono proteggersi, può essere un apparente cinismo, un disinteresse simulato o reale.
C’è Mario, il maestro, che ha cercato di uccidere moglie e figlia, incomprensibile, proprio lui, un concentrato di umanità e saggezza, innamorato dell’uccellino nel nido appena fuori dalla finestra. C’è Gianluca, un travestito che passa dall’entusiasmo alla disperazione, basta la parola giusta o quella sbagliata. C’è Giorgio, un omone che rivive ogni giorno la morte della madre, e l’impossibilità di darle un ultimo saluto. Grande, buono eppure preda di raptus violenti. Poi ci sono quelli che rifiutano completamente il mondo, quelli rinchiusi tre volte: dentro il reparto, dentro la stanza e dentro se stessi. Uno parla solo con la Madonnina, l’altro fissa un punto indefinito del muro, tutto il giorno, tutti i giorni.
Daniele è bipolare. Un disturbo grave, amplificato dal consumo di droghe. Il bipolare è bianco o nero. Quando uno è bianco pensa solo alla bellezza, alla felicità, al piacere. Quando uno è nero pensa solo alla morte. Ogni bipolare ha la certezza che sarà inghiottito dal nero. Per questo farebbe di tutto per restare bianco. Lo sforzo per rimanere in vetta è troppo stressante. Alla fine, il bipolare si butta nell’abisso o fa in modo che le circostanze lo spingano nel vuoto. Ma Daniele è davvero così malato o vive con pericolosa intensità sentimenti che proviamo tutti? La sua malattia si cura solo con i farmaci, è solo una questione di recettori della serotonina, come se l’uomo fosse una macchina con ingranaggi di carne, ne ripari uno e stop, il dolore finisce? Il problema di Daniele è lasciarsi ferire troppo dalla realtà, dalla sua illogicità, imprevedibilità, tragicità. Daniele vorrebbe chiedere salvezza per tutti: salvezza dalla morte, dal dolore, dall’infelicità, dalle delusioni. Una terapia, forse, può cancellare questo modo di vedere le cose. Ma la vera pazzia non sarà proibirsi di cedere almeno un po’, almeno qualche volta? Non è questo che fa di noi uomini e non robot funzionali alle richieste della società: produrre, consumare, crepare?
C’è tanta religiosità in questo libro, a partire dal titolo e dal ricorrere della parola chiave, salvezza. A volte, un reparto psichiatrico può essere la salvezza, non solo per le cure ricevute. Si crea una forte solidarietà tra i pazienti, perfino con quelli che non conosci o non puoi conoscere perché sono catatonici. Perché? La risposta è il grande insegnamento di questo libro prezioso. A un certo punto, ogni discorso viene meno. È il momento in cui ci si presenta disarmati di fronte alla vita. Questa ammissione di impotenza, che è anche richiesta di aiuto, è una prima forma di preghiera, ed ecco i matti che, davanti alla tragedia, Mario che cade dalla finestra, si trovano in ginocchio, a invocare l’aiuto di un Dio nel quale neppure credono. C’è una frase, molto vera, di uno psichiatra: «Dio è un po’ come un alfabeto, qualcuno te lo deve insegnare». Sì, la fede può arrivare improvvisa come l’amore, è un colpo di fulmine. Ma poi bisogna imparare a coltivarla, non si crede mai una volta per tutte, quando diciamo credo intendiamo mi sforzo ogni giorno di credere. Restano i dubbi, le contraddizioni: perché è un dono, la vita, a schiacciarci il muso a terra? Tutto chiede salvezza non è la storia di una conversione, nessuno diventa credente, ma è pervaso dalla più alta forma di fede.
Daniele Mencarelli, nato a Roma nel 1974, noto soprattutto come poeta, con questo romanzo, il secondo dopo La casa degli sguardi (Mondadori) non ha paura di cedere ai sentimenti ma non al sentimentalismo e si afferma come uno degli scrittori da leggere in questo inizio secolo.
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