Era il settembre del 2018 quando a fronte di inchieste dall’esito sconcertante sulla situazione degli animali da allevamento intensivo, l’Unione europea accettava una mozione del movimento civile end the cage age, letteralmente, porre fine all’era delle gabbie.
Oggi, siamo nel 2020 e le gabbie risultano un tema d’attualità particolare: le gabbie riguardano le persone. Persone che, come tutta la società civile, dovrebbero godere della loro cittadinanza ovvero del loro diritto di esistere e di sviluppare la propria singolarità in modo libero e valido, vengono invece legate a letto, a volte fino a morirne.
È la realtà dell’80% degli Spdc italiani dove, nonostante il passaggio della legge e della cultura democratica basagliana, nonostante le lotte ormai decennali di cittadini e in particolare del gruppo no restraint, della campagna …E Tu Slegalo Subito e soprattutto dell’inutilità di queste pratiche. Malgrado tutto, si continua a legare e a legare persone inermi alla mercé dei poteri istituzionali..
Ultimamente ne ha parlato la dottoressa Alessia de Stefano del Spdc di Roma 4 in un suo intervento il 17 dicembre 2019. Da questo vorrei partire per alcune considerazioni.
Per prima cosa bisogna sottolineare il primo ostacolo, la prima mancanza che si soffre in una ricerca del genere: l’omertà. De Stefano osserva i numeri relativi alla contenzione della regione Lazio. In genere un velo di oscurità e di omertà fa fatica a diradarsi. La contenzione si fa ma non si dice. La regione Lazio dichiara che, in media, una persona su dieci viene legata. In particolare su 297 casi trattati in questo modo, 7252 sono le ore complessive registrate, il che significa una media di 24 ore con la beffa del numero periodico, che numericamente sembra non avere mai fine, quasi a spaventare chiunque di voi provi a immedesimarsi anche solo con il pensiero in questa situazione, senza mai avere fine. Una fine che per alcuni arriva, a dispetto dei medici, per il collasso fisico, come accaduto a Giuseppe Casu o a Franco Mastrogiovanni, o per un incidente come accaduto per la diciannovenne Elena Cassetto, che, legata a letto aspettava che le fiamme dell’ospedale la divorassero.
A fronte di tanta sofferenza spesso si sente la testimonianza di quella specie di meccanismo di difesa nella coscienza dei più; è necessario si dice. Ma è veramente necessario? De Stefano ci spiega, come cento, mille altre che l’hanno preceduta, che assolutamente no, non è necessario, che tutto ciò accade deliberatamente dove la cura non è un progetto, dove non si riflette con professionalità e dunque umanità sulla situazione in cui si va a operare come medici o infermieri. Tutto si svolge sbrigativamente lasciando trapelare la stessa ideologia del manicomio.
Dunque, si tratta ancora una volta di ideologie, in questo caso funzionali all’apparato burocratico e al sistema efficentista vigente nel corpo sociale strutturato politicamente. Non si può in questo caso non citare un Filosofo ebreo tedesco del novecento, Gunther Anders, il quale, parlando del nazismo da cui era scappato, riferisce che la cosa più terribile che aveva prodotto il Nazismo non erano i 6 milioni di morti nei luoghi d’internamento ma l’esempio di una società della tecnica totalmente irrigimentata in cui l’uomo scompare.
Ebbene de Stefano, nel suo intervento propone quattro fattori da elaborare al fine di uscire dalla logica sopraccitata e sfuggire agli orrori della sua messa in pratica. Questi fattori rientrano nella considerazione intelligente e professionale di strutture, di organizzazione, di aspetti clinici, di formazione.
In più, come ella stessa riferisce, queste non sono iniziative utopiche o titaniche, ma delle realtà largamente sperimentate addirittura da secoli, come l’esperienza di Connolly nel manicomio di Hanwell o la comunità di Gheel o la mason de santè, tanto per citare alcuni esempi di matrice ottocentesca.
Appare dunque chiaro, il messaggio che de Stefano vuole lanciare attraverso le sue parole: il rispetto della persona è misura della qualità professionale degli operatori.
In ultima istanza, vorrei presentare un ulteriore spunto di riflessione per i lettori, qualsiasi sia la loro posizione politica o ideologica, il pilastro del nostro contratto sociale, la Costituzione italiana, che attraverso l’articolo 3 in particolare, si pronuncia sul tema.
Articolo 3
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
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