È di indubbio valore documentario la pubblicazione dei rapporti sullo stato dei Servizi per la salute mentale in Italia da parte di Starace e collaboratori, elaborati sulla base dei dati ministeriali del SISM (Sistema Informativo Salute Mentale). Ora sono anche messi a confronto i dati del triennio 2015-17. La fotografia che ne viene fuori è importante e fornisce informazioni su scala nazionale, anche se siamo ancora lontani da una plausibile riproduzione della realtà. È risaputo che ogni studio scientifico, per essere tale, è tenuto a rappresentare e denunciare da sé i propri limiti metodologici. Un atteggiamento rigoroso consiglia estrema prudenza quando si passa dall’elenco di una quantità di informazioni alla verifica della loro qualità, in termini di accuratezza e affidabilità dei dati, che soli permettono di inferire risultati e di analizzarli. In questo caso gli autori hanno ampiamente messo in evidenza le numerose incongruenze, ad esempio quando, nel sottolineare un significativo incremento delle strutture territoriali (nonché del personale) a fronte della riduzione dei posti letto di degenza ordinaria, subito avvertono che è probabile tuttavia che in alcuni casi le variazioni evidenziate rappresentino “aggiustamenti” di rilevazioni incomplete o parziali riportate l’anno precedente.
Si rischierebbe infatti un paradossale autogol se si dessero per scontate verità che tali non sono. Il rapporto, specie quello sui trend, è costellato di rilevazioni sorprendenti, che sarebbero stupefacenti se fossero veritiere. Come può una Regione avere una prevalenza trattata del 70-90% inferiore alla media nazionale, e che le collocherebbero ben al di sotto dei LEA, come per la Sardegna? O che vuol dire che il Veneto registra una crescita di oltre il 170% di servizi territoriali, se non si specifica a che cosa ci si riferisce (CSM aperti 6 ore o 24 ore, ad esempio)? E come mai? C’è stato un investimento importante, un cambio e un rilancio delle politiche di territorio? Non sembrerebbe. Come può il Lazio più che triplicare l’uso degli antipsicotici (+210%)? E il Molise raddoppiare gli accessi alle strutture territoriali, la Provincia di Trento aumentare la spesa del 114%, la Liguria triplicare i posti letto residenziali, e via discorrendo. Sembra che l’Italia proceda a sobbalzi, ma in una fase di stagnazione come questa ciò appare improbabile.
Purtroppo la variabilità dei dati ministeriali tra il 2015 e il 2017 conferma che siamo ancora lontani dall’avere un SISM basato su dati affidabili. I sistemi informatici regionali, la presenza di sistemi gestionali applicativi, il rilevamento dei dati stessi e il controllo di qualità sono elementi fondamentali da cui non si può prescindere. La realtà è che le Regioni devono fornire d’obbligo il flusso dei dati al Ministero della Salute, pena il non ricevere il finanziamento annuale. Come e chi lo faccia nella singola regione è spesso un mistero, ma di rado si tratta di personale adeguatamente preparato. Giustamente la SIEP nel rapporto del 2018 chiede un intervento diretto del Ministero in tal senso. È noto ad esempio che il FVG ha fornito dati incompleti nel 2015, relativi a circa 11.000 persone, quando ne erano contabilizzate dal sistema circa 20.000. Guardiamo ai dati su prevalenza e incidenza. Che cosa vuol dire incidenza rispetto a modalità di registrazione che fanno risultare nuovi pazienti appena reclutati nel sistema? E come può il FVG passare da una incidenza maggiore della prevalenza (che è un ossimoro) dei dati riferiti al 2015 ad una realtà normalmente bilanciata tra le due?
La stessa modalità di contabilizzazione dei TSO appare incompleta se affidata solo alle SDO ospedaliere. Che ne è dei TSO territoriali? Parliamo per cognizione di causa anche perché è di nuovo la nostra regione, il FVG, a risultare questa volta generosamente beneficiaria di un dato positivo ma falsato dal semplice fatto che la maggior parte dei TSO, in alcune aziende almeno, è effettuata nei CSM a 24 ore e non negli SPDC (si vedano qui i dati triennali inclusi nel Piano Regionale per la Salute Mentale del FVG del 27 gennaio 2018).
Il calcolo dei costi, altro tema cruciale, non può che essere piuttosto approssimativo in quanto:
1) Non sempre, anzi solo raramente, le aziende sono in grado di estrapolare il budget del loro DSM, specie per quanto riguarda i costi fissi delle strutture utilizzate e quelli effettivi (e non stimati) del personale;
2) I DSM possono o meno contenere i servizi per le dipendenze e quelli di NPI. Questo può comportare variazioni di costi, come abbiamo verificato in regione, fino al 70% in più o in meno.
Ciò appare tanto più importante quanto più si discute di risorse destinate alla salute mentale, e di disparità tra le regioni e le aziende stesse. Insomma, se di trend si può parlare, è sperabilmente quello verso una sempre maggiore affidabilità e accuratezza dei dati, che riducano il monumentale bias di misurazione o meglio di rilevazione. Non si può tuttavia chiedere di più alla SIEP, che sta in questo modo supportando e in parte vicariando le carenze del Ministero e dei suoi organi scientifici.
L’epidemiologia dei servizi, e soprattutto un’epidemiologia critica che non si fermi a contabilizzare l’esistente ma ne indichi la rispondenza a corrette prassi operative che andrebbero implementate, e registri gli esiti di servizi e programmi innovativi, va in ogni caso adeguatamente potenziata. Questo può avvenire solo con ricerche di valutazione comparativa che siano puntuali, possibilmente ad ampio raggio, e non attraverso semplici dati di flusso, sia pur rielaborati. Non ci si può limitare ad esempio alla dizione generica di servizi territoriali ma alle loro caratteristiche strutturali e di processo in termini di accessibilità, integrazione, continuità di cura, copertura della domanda anche sulle 24 ore, etc. Su questo pubblicammo anni fa una ricerca nazionale sviluppata con Morosini sul tema della risposta all’emergenza e alla crisi, ma soprattutto negli anni immediatamente successivi il nostro DSM ha partecipato ad importanti ricerche finalizzate nazionali (della serie ProgRes, tra cui ProgRes Acuti, che ha anche co-condotto) che hanno permesso un serio approfondimento sui servizi, rivelandone i limiti e le storture (come l’ubiquità della contenzione). Questo però prima che il sistema di funzionamento dei bandi delle finalizzate diventasse proibitivo anche economicamente per i livelli di compartecipazione alla spesa previsti, oltre che per l’impianto ipertradizionalista.
L’Italia della riforma psichiatrica ha certamente realizzato un modello originale di organizzazione dei DSM, in termini di servizi e strumenti che li compongono; se non altro privi di istituzioni totali, se si eccettuano gli OPG e oggi alcune Rems. Non si tratta di operare sofistiche distinzioni o di pretendere un’acritica affermazione di modelli, ma di ragionare sui servizi esigibili, garantiti o meno, a livello del cittadino in quanto utente allargato, comprendendo in questa dizione non solo i familiari ma anche i vicini, e la comunità più ampia.
Ma pochi sono gli studi di efficacia per l’Italia che riguardano il delivery of care (il servizio in toto con le sue modalità di organizzazione e funzionamento) e non solo il content of care (i singoli approcci e trattamenti, le tecniche impiegate, o i farmaci). Quindi, da un lato, è necessario riferirsi alle migliori evidenze disponibili su singoli aspetti del servizio, dalla crisi alla continuità territoriale (vedi ad esempio il Position Paper dell’EU – Progetto Compass, Providing Community Based Mental Health Services di Killaspy et al.): se è vero che la maggior parte dei servizi italiani lavora su una base ambulatoriale, in cui il paziente è visto da un solo specialista, e non da un team mobile multidisciplinare, va considerato in primis che non vi sono evidenze di efficacia di una simile organizzazione (Malone, 2010). Occorre dall’altro sviluppare una visione della complessità, capace di cogliere ciò che è un DSM, non solo sommatoria di singoli servizi o team (all’anglosassone), sia pure di recente impianto e innovativi (vedi il Dialogo Aperto), ma un tutto che è (o dovrebbe essere) maggiore delle singole parti, proprio perché ne valorizza le sinergie e l’integrazione. Un esempio eclatante è l’apparente contraddizione o contrapposizione tra modelli tecnici di inserimento lavorativo, indubbiamente efficaci, come l’IPS, e un intero sistema di imprese sociali che non solo fa inserimenti ma costruisce opportunità per un’economia sociale e solidale. Si tratta di ambiti e livelli distinti e non comparabili. Un tanto è emerso dalla ricerca finalizzata PIL_DSM (Bracco et al. 2015), sia pure assai diversamente nelle varie Regioni. Uno studio importante sui percorsi di cura in quattro regioni del nord si è fondato su dati clinici relativi a gruppi diagnostici, sia pure non pesati per complessità. Avremmo tuttavia bisogno non solo di riferirci a linee guida presenti (come nella nostra regione stiamo facendo col mhGAP-IG dell’OMS), ma di valutare l’innovazione. Vedi ad esempio il campo, relegato finora solo a valutazioni economicistiche, del budget di cura, e più in generale di tutte le pratiche di co-produzione tra pubblico e Terzo Settore, che sono tuttora fuori da studi sugli esiti valutati soprattutto a livello dei beneficiari.
Gli strumenti standardizzati, spesso non eccelsi in termini di validità discriminante (come la HoNoS), e che riflettono la visione dell’operatore, non possono sostituire strumenti di autovalutazione e/o graduati rispetto agli specifici obiettivi e bisogni di cura.
Una visione all’altezza della complessità fu all’epoca quella del progetto Prevenzione delle Malattie Mentali (P.M.M.) sviluppato dal CNR a ridosso della legge di riforma col concorso di Maccacaro, Morosini, Castelfranchi, Misiti, Giannichedda, oltre che Basaglia, Pirella, Rotelli, Manuali e altri grandi: si raccoglievano i dati dei manicomi e dei nuovi servizi che nascevano, ma anche si studiava il fenomeno della malattia mentale non solo come un dato caratterizzato sul piano diagnostico, ma attraverso la sua ricezione sociale, il suo impatto, le culture su cui si alimentava il bisogno di manicomio attraverso l’infezione della comunità. Andrebbero (ri)pubblicati i voluminosi contributi che purtroppo non pervennero a facili sintesi (ancora li abbiamo in archivio), ma che rappresentarono il primo, forse unico, tentativo ambizioso di aggredire la complessità del campo problematico della salute mentale. Prima che la 180 di nuovo lo normalizzasse e normativizzasse.
Epidemiologia della cittadinanza è il titolo di un bel libro di Gianni Tognoni, come sempre alto e visionario nella proposta ma che si fa fatica a tradurre in percorsi di ricerca e di studio sul campo. Perché non resti una provocazione intellettuale è necessario introdurre i punti di repere etici e del diritto internazionale in un orizzonte valutativo. Fu per primo il gruppo di Boston capitanato da Bill Anthony a voler introdurre il tema della coniugazione necessaria di value and evidence-based practice nella riabilitazione, in un’ottica di recovery; ed un decennio più tardi lo ripresero Thornicroft e Tansella col concetto delle tre E (etica, evidenza, esperienza) per valutare i servizi. Non è un caso che l’OMS, col programma QualityRights, stia per manualizzare nel corso del 2020 una monumentale guidance per le migliori pratiche rispettose dei diritti umani e orientate alla recovery delle persone (si veda su questo il nostro recente articolo Reducing coercion in mental health care, con Sashidharan e Puras). A quando lo sviluppo di una serie di indicatori riferiti a questi presupposti e principi etico-valoriali?
In definitiva si auspica, grazie allo sforzo di Starace e della SIEP, la ripresa di un’attenzione critica al tema dell’epidemiologia, o meglio di un’epidemiologia critica al servizio del cittadino. Il che vuol dire partire dalla critica dei servizi in cui si opera (uscire dalla sindrome dello struzzo) e porsi alcune domande fondamentali. La domanda che sorge spontanea è la seguente: che cosa succede nel paese reale? Qual è l’esperienza dei servizi di quel cittadino? Che tipo di offerta è davvero disponibile? A fronte di quale domanda? In termini almeno di costo-efficienza, quando si nota che la Calabria ha all’incirca gli stessi dati di esito delle regioni più ricche con un budget del 2.1%, andrebbero fatte delle ipotesi. C’è una contrazione della domanda, non ci si aspetta nulla dal pubblico? Oppure ci sono elementi di capitale sociale (ad esempio le famiglie o le culture delle comunità) che entrano positivamente nel concorso di risorse utili a rispondere ai bisogni di cura? Oppure i servizi calabresi hanno delle caratteristiche di efficacia straordinarie?
Non è un caso che spesso restituiscono il senso di ciò che accade realmente alcuni filoni di ricerca qualitativa, come quelle sulla recovery (della quale non può esistere una epidemiologia in senso stretto) o addirittura gli account raccolti sul campo con inchieste ad hoc, ad esempio tramite interviste a testimoni privilegiati come nei numerosi esempi degli ultimi anni (vedi quelle condotte dalla britannica Mind sui servizi per acuti; dall’Università del Kent per conto di MHE sulle pratiche coercitive, e più di recente dall’Università di Melbourne; dalla F.R.A. sui trattamenti obbligatori in Europa, etc). Ora che, grazie a Starace e alla SIEP, abbiamo quantomeno una base di dati sui servizi italiani e sui loro (in gran parte risibili) costi, occorre insistere nel chiedere adeguati finanziamenti (almeno il 10% della spesa sanitaria per i paesi ad alto reddito come l’Italia, secondo la Lancet Commission, 2018). Ma per fare cosa? La risposta è semplice: per trasformarli in servizi di qualità, rispettosi delle persone, ispirati ad un’etica della cura. Iniziamo a chiedere quali caratteristiche delle organizzazioni e dei relativi percorsi seriamente rispondano a questi principi fondamentali, in modo intellettualmente onesto e rigoroso, ovvero poco incline a visioni consolatorie e a compromessi. Questa volta ci tocca seguire l’OMS, noi che in Italia 40 anni fa la anticipammo.