Non ho l’arma che uccide il leone è un libro testimonianza che raccoglie, come dice lo stesso sottotitolo, la vera storia del cambiamento nella Trieste di Basaglia e nel manicomio di San Giovanni, e che si rivolge non agli specialisti, non ai tecnici, non agli storici, ma a tutti coloro che vogliono sapere e alle giovani generazioni. Pubblicato per la prima volta nel 1980 dall’Editoriale Libraria di Trieste, a poca distanza dall’approvazione della Legge 180, con una seconda edizione nel 2007 a cura di Stampa Alternativa, il libro conserva anche in questa terza edizione una presentazione inedita di Franco Basaglia, i disegni di Ugo Guarino e i contributi di Pier Aldo Rovatti e Franco Rotelli.
Il volume si compone essenzialmente di due parti. Nella prima, a margine dei 22 racconti, un appunto restituisce al lettore emozioni, nostalgie, memorie, riflessioni che vogliono rendere ragione di alcune circostanze in cui quegli eventi sono accaduti. Oltre cento i protagonisti di questa storia, narrata in modi e con spessore diverso, da una posizione completamente soggettiva. La seconda parte si compone di una cronologia, anno per anno (dal 1971 al 1979), necessaria per una più ampia comprensione di tutta la vera storia, che restituisce un passaggio epocale nel quale i triestini sono stati, a vario titolo, protagonisti. Moltissimi giovani in quegli anni, frequentando San Giovanni, furono artefici e sostennero un cambiamento difficilissimo traghettando in città e portando sulle loro spalle i matti di San Giovanni.
Il libro è diventato sin da subito un classico della letteratura sul tema tanto da costituire la traccia per un lavoro televisivo realizzato per RAI 3 nel 1981 e poi per la sceneggiatura della fiction C’era una volta la città dei matti, andata in onda su Rai 1 nel 2010 e vista da otto milioni di telespettatori.
«Questa storia vorremmo restituirla, oggi, nelle sue pieghe e nei suoi minimi movimenti alla Città e a tutti quei cittadini che vogliono sapere» – dichiara Aldo Mazza, direttore delle Edizioni Alphabeta Verlag di Merano.
«Non ho l’arma che uccide il leone racconta la storia di Giovanni, Rosina, Carletto, Nevio e di tanti altri internati, e poi dimessi dal manicomio triestino. Racconta la storia delle loro piccole e grandi rinascite, dell’uscita dall’anonimato, della liberazione, dell’emancipazione. Ho avuto la fortuna di partecipare a una storia che ha cambiato il mondo. Questo libro vuole restituire a chi legge, spero tanti giovani, studenti e operatori, un pezzo di quell’entusiasmo per provare a ricercare insieme il senso di quegli accadimenti» ha racconta l’autore Peppe Dell’Acqua.
Ogni storia di questo racconto è lacerazione e vita dentro la lacerazione. Ma è soprattutto la storia della costruzione e dell’invenzione di una complicità, dove le persone ritrovano i fili della vita e della memoria. Dove la sola arma per uccidere il leone, o quanto meno tramortirlo, è il musiliano senso della possibilità. Progettare, scegliere, desiderare, emanciparsi, riacquisire un’identità sociale che non sia quella del malato di mente. In questa narrazione nessuno recita a soggetto, le storie si dilatano e si stemperano in un’appartenenza che rompe i confini, contamina i ruoli, scardina il senso comune e gli automatismi semantici che lo sostengono. Scardina le equazioni con cui continuiamo a parlare di tutto questo.