Dopo aver appreso della pubblicazione del libro Le scarpe dei matti. Pratiche discorsive, normative e dispositivi psichiatrici in Italia (1904-2019) di Antonio Esposito, abbiamo deciso di proporre la recensione di Paolo Peloso, che ci è parsa equilibrata e opportunamente critica, capace di stimolare attenzione e discussioni. Torniamo ora sul libro con un ulteriore approfondimento uscito sul Fatto Quotidiano, dove è intervistato lo stesso autore.
«La normalità, intesa nel senso nobile del termine, altro non è se non un continuo oscillare tra salute e malattia, entrambe strettamente collegate all’ambiente socio culturale nel quale la persona vive», si legge nella prefazione di Assunta Signorelli al libro Le scarpe dei Matti (Ad este dell’equatore) del ricercatore indipendente Antonio Esposito. Un lavoro importante, che nasce da un progetto di ricerca sui 40 anni dalla legge 180 (legge Basaglia) e dall’incontro fortuito, nei seminterrati dell’ex manicomio Santa Maria Maddalena di Aversa, con un cumulo di scarpe abbandonate, spaiate, rosicate dai topi.
Scarpe senza lacci, vietati in manicomio, indossate da quanti – donne, uomini e bambini – sono stati rinchiusi in quel luogo, secondo una cultura e una normativa che trasformava l’azione psichiatrica in intervento di ordine pubblico, portando in manicomio chi era considerato pericoloso o di pubblico scandalo. Un libro che ripercorre oltre un secolo di psichiatria in Italia, dalla legge del 1904 all’attuale sistema dei servizi, per riflettere con rigore scientifico su ciò che manca e sulla riproposizione di logiche manicomiali. Un libro che inevitabilmente ci impone un’importante domanda politica: in che società vogliamo vivere?
Quali strade devono ancora percorrere le scarpe dei matti per trovare un po’ di pace?
Per trovare un po’ di pace, un po’ di giustizia, devono incontrare sguardi capaci di ascolto e accoglienza, la cura che, prima di qualsivoglia diagnosi o farmaco, è data dal riconoscimento, dall’essere accolti, scriveva Jorge Luis Borges, come parte di una realtà innegabile.
In questi 40 anni di chiusura dei manicomi com’è migliorata la vita dei matti?
La chiusura dei manicomi è stata una vera e propria rivoluzione, una delle più importanti riforme operate in questo Paese, il primo a realizzare la possibilità di curare la sofferenza mentale facendo a meno delle mura asilari. L’opera iniziata da Franco Basaglia, e al sud, in Campania, da Sergio Piro, ha restituito il sofferente psichico al diritto di cittadinanza, riconoscendogli dignità sociale e reali possibilità di cura. Purtroppo, la legge 180 è stata applicata male, a macchia di leopardo con grandi differenze territoriali, e certamente presenta elementi estremamente problematici come il Tso. Ma sarebbe un grave errore, storico e politico, imputare la cattiva o mancata applicazione delle previsioni della normativa alla legge, i cui principi sono saldamente ancorati all’orizzonte costituzionale.
Ha visto il film Joker? Mi ha fatto pensare allo psichiatra, Ronald Laing, che vedeva nella follia una risposta sana a un ambiente sociale malato. Oggi come si cura un paziente come Joker?
Il film porta riflessioni importanti anche sul mondo della sofferenza psichica, ma credo che non si debba “tipizzare” Joker: ogni percorso di cura deve rispondere al cammino biografico, ai bisogni, ai desideri della persona sofferente, a partire dal riconoscimento della sua unicità calata nello specifico contesto, sociale, familiare, affettivo e lavorativo in cui vive. Va poi chiarito che l’equazione malattia mentale-pericolosità sociale è fondata sulla paura del diverso e sulla logica del capro espiatorio, figlia di una visione stereotipata della sofferenza psichica che, purtroppo, viene inopinatamente riproposta dalla politica, dai media e anche dai tecnici.
Un altro tema che emerge dal film, come critica al sistema americano, sono i tagli al welfare che privano Joker dell’assistenza psichiatrica di cui ha bisogno. In Italia come siamo messi?
In Europa e in Italia, negli ultimi trent’anni, si è realizzato uno smantellamento sistemico del welfare, che si è abbattuto innanzitutto sulle persone più fragili, sulle fasce sociali più deboli, su quanti, come i sofferenti psichici e i loro familiari, avrebbero maggiore necessità di cura e assistenza. Il taglio dei servizi (innanzitutto quelli aperti sulle 24 ore), del personale, dei luoghi pubblici di cura, determina una situazione spesso insostenibile, con prese in carico che si limitano alla prescrizione farmacologica e un’assistenza quotidiana che ricade sulle sole spalle dei familiari. E la situazione diventa drammatica al Sud, dove in regioni come la Campania, le Marche, la Basilicata, alla salute mentale è assegnato poco più del 2% del Fondo Sanitario, a fronte di una media nazionale del 3,5%. Ma non è solo una questione di scarsità di fondi, è importante anche come si spendono, quali sono le opzioni di cura messe in campo.
Dal suo lavoro emerge che dietro la produzione e al consumo di farmaci, oltre a un conflitto d’interesse tra medici e case farmaceutiche, c’è un obiettivo socio politico di controllo ed esclusione, cosa intende?
Il conflitto d’interesse è segnalato, oltre che da numerosi studi, finanche dal Comitato nazionale per la bioetica, senza che però questo abbia prodotto alcun intervento utile. Oggi si assiste a un vero e proprio abuso della prescrizione e dell’utilizzo dei psicofarmaci. Nel 2017 in Italia, secondo i dati del Ministero, si sono consumate oltre 48 milioni di confezioni tra antidepressivi, antipsicotici e litio, con una spesa lorda superiore ai 500 milioni di euro. Un trend destinato a crescere.
Il nuovo grande mercato di consumatori è rappresentato da giovani e bambini, con psicofarmaci somministrati fin dalla più tenera età, a fronte di un dilagare psichiatrico-diagnostico da cui scompare il contesto sociale, economico e familiare e ogni problematicità, ogni supposta anomalia è addebitata a una malattia del soggetto. Chi viene considerato “anomalia” del sistema capitalistico produttivista viene “normalizzato” come consumatore di farmaci. Questo non vuol dire negare l’esistenza della sofferenza psichica, né l’importanza dei farmaci: si vuole, piuttosto, richiamare la necessità di problematizzare le questioni in campo e restituire la salute mentale alla sua dimensione multisistemica e pluridisciplinare.
Per i familiari esiste un’assistenza che li aiuti nella gestione della malattia?
Oggi i familiari, a fronte dello smantellamento dei servizi, sono troppo spesso abbandonati a loro stessi, senza ricevere alcun tipo di supporto dalle istituzioni. È però essenziale che anche i familiari si facciano protagonisti, come i sofferenti stessi, di rivendicazioni e lotte in grado di portare questi temi al centro del dibattito pubblico, contribuendo in maniera sostanziale al cambiamento delle cose.
Nel libro si parla di fascino discreto dei manicomi e di recente abbiamo sentito Salvini parlare della riapertura dei manicomi, cosa ne pensa?
In realtà il fascino del manicomio si fa sempre meno discreto. Purtroppo una certa politica fomenta e cavalca in modo strumentale la paura del “diverso”, costruisce con un linguaggio spesso violento i capri espiatori a cui imputare tutti i mali sociali, autoassolvendosi delle proprie mancanze e omettendo le proprie ruberie.
Riproporre i manicomi è in linea con il pensiero che vuole i porti chiusi, con le politiche che hanno costruito luoghi terribili come Cie e Centri di rimpatrio, con un autoritarismo che ha in spregio diritti e libertà inseguendo, con parole d’ordine d’odio e violenza, una strana concezione di ordine e sicurezza che somiglia molto alla repressione di regime.