I
IMBECILLE, CRETINO, IDIOTA.
Campionario diagnostico col quale, in neuropsichiatria infantile, vengono etichettati “scientificamente” alcuni tipi di bambini la cui evoluzione psichica è ritenuta al di sotto della norma. Queste voci sono entrate nel linguaggio comune, offrendo strumenti di stigmatizzazione empirica alla conversazione quotidiana (Io non sono un imbecille, tu sei un cretino, ci considerano tutti idioti, eccetera).
INCIDENTE (fuga, omicidio, suicidio, eccetera).
Qualsiasi incidente avvenga nella istituzione psichiatrica, viene abitualmente imputato alla malattia, chiamata in causa come unica responsabile della imprevedibilità del comportamento dell’internato: la scienza, nel definire il malato incomprensibile, offre cioè allo psichiatra lo strumento per deresponsabilizzarsi nei confronti di un paziente che, per legge, egli dovrebbe controllare e custodire.
Responsabile di fronte alla società che gli delega il controllo dei comportamenti devianti (un controllo che non ammette, a differenza di altre specialità, rischi e fallimenti), lo psichiatra non fa altro che trasferire la responsabilità di tali comportamenti nella malattia, limitandosi a ridurre al minimo la possibilità di azione del malato, trasformato in un oggetto all’interno di una istituzione, il manicomio, che ha il compito di prevedere lo imprevedibile. L’incomprensibilità di un atto toglie ogni responsabilità a chi vi assiste o all’ambiente in cui esso si compie, dato che definendolo come un atto ”malato” si chiama in causa soltanto l’impulso abnorme e incontrollabile connaturato con la malattia.
Nel caso dell’istituzione chiusa, di tipo custodialistico tradizionale, scopo primario è sempre quello dell’efficienza dell’organizzazione: il malato è un oggetto all’interno di un sistema nelle cui norme e regole deve identificarsi. E’ dunque l ‘istituzione che, proponendosi come una realtà priva di alternative e di possibilità personali, dà al ricoverato le indicazioni verso l’atto che si presume egli debba compiere. In questa situazione coatta, dove tutto è controllato e previsto in funzione di ciò che non deve accadere, la libertà non può essere vissuta che come l’”atto proibito”, impossibile ad attuarsi, in una realtà che vive solo, per prevenirlo. Lo spiraglio di una porta aperta, una stanza incustodita, una finestra socchiusa, un coltello dimenticato sono l’invito esplicito a un’azione auto o etero distruttiva per prevenire la quale esiste l’istituzione. Dove non ci sono alternative, l’unico futuro possibile è la morte, come rifiuto di una condizione di vita invivibile, come protesta al grado di oggettivazione in cui si è ridotti, come l’unica illusione possibile di libertà, come l’unico progetto possibile. Ed è troppo facile identificare queste motivazioni con la natura della malattia, come la psichiatria classica ci ha insegnato.
L’unica responsabilità che l’istituzione concede all’internato è dunque quella dell’incidente, che essa si affretta a trasferire nel malato e nella malattia, rifiutandone ogni legame e partecipazione. Il ricoverato che, durante la lunga degenza (v.: “lungodegente”), si è trovato spogliato e deresponsabilizzato in ogni movimento, si ritrova completamente e automaticamente responsabile di fronte al suo unico atto di libertà, che quasi sempre coincide con la morte.
In questo senso l’incidente (di qualunque natura esso sia) non è che l’espressione del vivere la regola istituzionale fino in fondo, portando alle estreme conseguenze le indicazioni che l’istituzione fornisce al malato.
Nel caso di un’istituzione aperta, la finalità globale dell’istituto è il mantenimento della soggettività del ricoverato, anche se la cosa può andare a scapito dell’efficienza generale dell’organizzazione. In questa realtà, la libertà diventa norma e il degente si abitua a usarla. Ma perché ciò avvenga è necessario che tutta l’istituzione (cioè i diversi ruoli che la compongono) sia interamente coinvolta e presente in ogni momento e in ogni atto, come sostegno materiale e psicologico del malato. In questo contesto l’incidente non è più il tragico risultato di una mancata sorveglianza, ma di un mancato sostegno da parte dell’istituto.
La porta aperta diventa una indicazione per una presa di coscienza sul significato della porta, cioè della separazione, dell’esclusione di cui i malati sono oggetto in questa società. L’ospedale agisce stimolando la presa di coscienza da parte del malato di essere un escluso reale: ciò che è stato fatto di lui e il significato sociale che ha avuto l’istituzione in cui è stato rinchiuso. Che significato ha l’incidente in questo contesto? Un malato che può venire dimesso e che si trova rifiutato dalla famiglia, dal posto di lavoro, dagli amici, da una realtà che lo respinge violentemente come uomo di troppo, che cosa può fare se non reagire contro chiunque abbia per lui la faccia della violenza di cui è oggetto? In questo processo chi può, onestamente, parlare solo di malattia; e di chi sono le responsabilità più dirette?
L
LEGGE PSICHIATRICA.
L’insieme delle norme giuridiche (approvate nel 1904 e tuttora vigenti) che stabiliscono l’esclusione totale dei malati di mente mediante il loro isolamento in “manicomio” (v.). Cardine della legge è il principio della custodia dell’alienato, intesa come privazione della personalità umana sia in linea di fatto (attribuzione del malato a una istituzione totale che lo trasforma in oggetto), sia in linea di diritto (trasferimento della capacità giuridica ad altra persona, il tutore, attraverso l’”interdizione” (v.). La custodia è abbinata alla cura, ma l’attuazione della prima in modi coercitivi (paragonabili alla carcerazione ma a un livello ancora deteriore) esclude la seconda.
La preoccupazione della legge non è dunque diretta alla cura della malattia o alla prevenzione, di cui non si fa neppure cenno, bensì e unicamente a proteggere la società contro la “pericolosità” (v.) dell’alienato e contro “il pubblico scandalo” del suo comportamento. Il punto di riferimento rimane così esterno alla malattia ed è costituito dal riflesso delle concezioni correnti (ossia imposte dalla classe dominante) in materia di moralità e di ordine pubblico.
In coerenza con tutto questo, l’autorità di pubblica sicurezza, la famiglia, “qualunque interessato” sono i giudici preliminari del ricovero. La decisione finale spetta al magistrato, il quale si limita ad appropriarsi acriticamente del parere dello psichiatra. Si attua così una mediazione giudiziaria che costituisce un capolavoro di ipocrisia giuridica: a un organo apparentemente neutrale e irresponsabile, ma sostanzialmente espressione della classe dominante, è demandata l’applicazione del marchio della pazzia, con evidente sollievo per i reali artefici dell’esclusione.
La legge attribuisce un potere carismatico allo psichiatra, arbitro indiscusso di ricoveri, dimissioni, trattamenti terapeutici, adozione di mezzi coercitivi. Ma al tempo stesso gli garantisce lo scarico di responsabilità, in basso verso gli infermieri che rispondono dei malati loro affidati; in alto verso il giudice che avalla le sue decisioni.
La legge psichiatrica è oggetto di progetti di riforma. Un passo è stato compiuto nel 1967 con la previsione del ricovero volontario accanto al ricovero coattivo. Si è fatto in modo cioè che il malato potesse formalmente decidere da solo la propria esclusione sociale. Sono previsti passi successivi, che dovrebbero abbattere gli aspetti più medievali e ripugnanti del sistema manicomiale. Non è previsto un mutamento di fondo che potrebbe incidere radicalmente nella trasformazione dell’assistenza psichiatrica: il riconoscimento della malattia di mente come malattia sociale. (Giangiulio Ambrosini).
LUNGODEGENTE.
Termine tecnico che sostituisce la vecchia definizione di “cronico” per il malato mentale da anni “‘istituzionalizzato” (v.) nel “manicomio” (v.). Con questa denominazione si presume di dare nuova dignità al ricoverato, conservandone tuttavia intatto il ruolo e il destino. Qualcosa di analogo all’operazione con cui si chiamano netturbini gli spazzini, agenti di custodia i secondini, necrofori i becchini.