Di Amedeo Gagliardi, pedagogista, associazione San Marcellino, Genova
Come faccio a continuare a prestare la mia opera come medico, se vengo ucciso come uomo?
Con questa domanda posta da Shin-fu, dopo aver assistito alla conquista da parte del nemico della città in cui si trovava il suo ospedale, Franco Basaglia conclude: La maggioranza deviante.
Domanda che fa intuire come la rigida divisione del lavoro nella dimensione della cura diventi spesso solo strumento di potere, di oppressione, di impasse e di cattive pratiche.
È questo a mio parere il tema del breve ma denso saggio Le nostre oscillazioni, scritto da Pier Aldo Rovatti per la Collana180 – Archivio critico della Salute Mentale, nel quale riprende un discorso per ri-costruire criticamente un rapporto tra filosofia e follia.
L’autore invita gli operatori, ma non solo, a guardare all’esperienza della follia partendo dall’osservazione delle proprie oscillazioni vitali, tenendo uno sguardo sul nostro precario equilibrio, quello dello stare a cavallo di un muretto.
Un’immagine che esprime in modo semplice ma efficace la posizione nella quale provare a riconoscersi: un equilibrio instabile che si può mantenere accettando la condizione del non so, del dubbio, per poter accedere a quella liberazione di cui Basaglia in Italia e nel mondo è stato assoluto protagonista.
Un contributo a mio parere puntuale e necessario al dibattito culturale oggi, in un momento dove la paura per la diversità si ostina a far tacere l’Altro tracciando confini e alzando nuovamente muri. Ponendo al centro l’arte dell’oscillazione e invitando a confrontarsi con questa dimensione, Pier Aldo Rovatti cerca di tracciare e riprendere un sentiero diverso.
Sì, perché diciamolo serenamente: negli ultimi anni in pochi hanno seguito questa indicazione. In questi ultimi trent’anni si è progressivamente imposto un modello rigido che ha pensato di far crescere efficienza ed efficacia attraverso l’aziendalizzazione delle Istituzioni. Anni in cui si è fatta strada l’idea, sia nella concezione delle organizzazioni che di conseguenza nella pratica degli operatori, di un modello deterministico, prestazionale, disciplinare, derivato dalle organizzazioni produttrici delle merci. Questo modello ha creduto di poter rinunciare alla dimensione relazionale, segmentando le funzioni e i ruoli professionali, esasperando un professionalismo degenerativo, chiuso: la conseguenza è stata quella di aumentare le barriere e le difficoltà di accesso ai servizi per le persone più fragili.
È in questa direzione che si sono imposte pratiche che di fatto hanno congelato la consapevolezza di tali oscillazioni, irrigidendo i sistemi organizzativi, allontanando i piani alti dai piani bassi, senza comprendere che bisognava invertire la piramide o almeno renderla più fluida, perché il momento della verità nelle organizzazioni di servizio si forma nella relazione tra operatore ed utente, che per questo motivo deve essere il centro dell’attenzione.
Per contro oggi vediamo risvegliarsi l’ansia del controllo e della sorveglianza, un’ansia mai sopita che nell’attuale situazione di degrado culturale dilaga. Lo vediamo anche in questi giorni dove al Senato passa la proposta di collocare videocamere di sorveglianza nei nidi, nelle scuole dell’infanzia e nei servizi per persone fragili. Una proposta inutile e dannosa per la protezione delle persone, come dimostra ampiamente la storia delle istituzioni totali e come testimonia il docufilm del 2015 87 ore di Costanza Quatriglio, che racconta la morte di Francesco Mastrogiovanni in un reparto psichiatrico di ospedale, film interamente costruito con immagini delle telecamere interne. Telecamere che allontanano, separano, escludono, annientando il senso di responsabilità personale degli operatori.
L’obiettivo della riflessione di Pier Aldo Rovatti è quello di dare un contributo etico per restituire l’umanità necessaria quando ci si occupa della cura delle persone. Di questo lo ringrazio. Questo è possibile, ci spiega, se sappiamo riconoscere la follia come un valore in ognuno di noi. Dimensione che ci permette di trasformare la struttura e le regole che ci guidano, cercando e giocando insieme agli altri, per poter uscire dai pasticci e dai paradossi che queste ci propongono.
Negare questa possibilità vuol dire far morire la nostra umanità, accettando la rigidità della sola dimensione della sofferenza, che opprime, schiaccia, immobilizza, dentro ruoli precostituiti, magari più rassicuranti in un primo momento, perché ci illudono di essere i più normali tra i normali, ma incapaci di generare nuove strade, nuovi percorsi, nuove possibili vitali oscillazioni.