Di Tobia Bait, studente presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, Dipartimento di Filosofia
Dimentichiamo per un attimo la scena del manicomio, delle strutture di cura, della rappresentazione del matto quale figura sociale, e raccogliamoci entro il nucleo delle nostre intime considerazioni, al di là della forma, al di là dell’identità con cui risolviamo il mondo entro figure al servizio del sereno pensiero. Riscopriamo ciò che al fondo ci muove e ci inizia alla strutturazione del significato come da un sordo sgomento che incalza il silenzio su cui il vincolo della verità si insinua per sorreggere la forma che pure è necessaria perché la vita si manifesti. Questo sembra essere l’invito che Rovatti pone come condizione della nostra consapevolezza, l’andare a sviscerare il come la genia di un processo abbia portato alla quieta consapevolezza di un contenuto. Solo così la falsità del luogo comune potrà essere smascherata e dunque risolta nella sua chiarezza. Sembra un indirizzo filologico a prima vista ma non è così, poiché rifiuta la connotazione culturale di un significato in quanto già in questa impostazione lo studio si priverebbe della sua carica introspettiva per divenire storica, sociale, basata su un abitudine di pensiero. No, la ricerca in questo caso vuole essere esistenziale, vuole ricoprire il ruolo di un chiedere rispetto a se stessi cosa voglia dire follia per noi che viviamo il prodotto della nostra trama interiore, per noi che continuamente oscilliamo tra un quidel processo interiore e un làdelle connotazioni collettive, sempre frutto di un’impostazione culturale, di un passato, di un solido percorso storico. Non solo, ma è anche un monito, un monito a non svendere la cangiante ricchezza del soggetto nel suo vedere il mondo genuinamente, ogni volta, nascendo, come fosse la prima rispetto ad una società secolare che ha già scelto quale sia l’indirizzo e quale sia il nome di ogni dinamica. Ed è un avvertimento, non solo per la salvaguardia del soggetto, ma per il corpo sociale intero che nella stasi del luogo comune riduce le sue parti a funzioni e castra la sua evoluzione nello sclerotismo di una mente inerte, incapace di trovare problematiche e soluzioni al di là del preconcetto di se stessa. Rovatti riporta nel suo libro un esperimento in cui chiese a vari operatori nel campo della psichiatria cosa volesse dire per loro follia; tra le varie risposte, tutte incerte, una riporta: «Non sono capace di dire così in poco tempo cos’è la follia. Mi vengono in mente solo due risposte. La prima è: non so. La seconda: follia è diversità oppure paura della diversità.» Pare che la definizione della parola follia sia problematica e molto più problematica per chi ha a che fare ogni dì con chi rappresenta socialmente tale connotazione, e questo perché in qualche modo non è una parola che si lascia canonizzare, non definisce il prodotto di una dinamica ma la natura di ogni intreccio. Sfugge ad ogni definizione totale per farsi poi riconoscere nel determinato riportando l’individuo ad esprimere il dubbio, a cercare nel vissuto il senso del suo dire. Rappresenta una cartina tornasole della profondità del parlante, perché l’onesto non saprà in nessun caso dire: «La follia è questo». Perché a tale parola si evocano processi interiori, malattie ed evoluzioni o anche tutte e tre contemporaneamente. Scrivendo questa presentazione mi sovviene ora l’immagine del ciclo evolutivo del bruco che per essere farfalla medita la sua dissoluzione nel bozzolo da cui presto, a tempo debito, riemergerà come farfalla. Vale a dire che ogni processo evolutivo si instaura nella follia della dissoluzione della propria identità da cui emerge ricomposta, riequilibrata e nuova. Ed esiste la follia di un’omeostasi tradita quando il punto d’equilibrio cede e il flusso mentale diventa estraneo a se stesso. Ed esiste una follia del quietismo quando ci si preclude ogni oscillazione al di là del precostituito, quasi come se un bruco, appunto, non oltrepassasse la paura del diverso e si ostinasse a strisciare contro natura fuggendo dal suo destino di farfalla. Ed ecco che si staglia di fronte a noi la parola follia come un contenitore vuoto da riempire con i tratti esistenziali del soggetto, con la paura quando frena, con l’odio quando diverge da sé, con l’amore quando diverge dall’errore . L’unica verità sembra essere quella della familiarità, quella che non marchia la follia come estranea privandosene follemente ma quella che riscontra nel proprio intimo la divergenza, la follia dell’altrove e con mente lucida ritrova in sé, onestamente, il male ed il bene di esistere e dunque di riempire di significato l’interpretazione dei nomi senza che questi si impongano tirannicamente e scioccamente su di noi. Nel primo capitolo Rovatti parla di una cultura che si è persa riferendosi ad un ambito specifico, ma ciò che dà l’amaro in bocca è ciò che trapela, non si tratta solo di un concetto di follia ridotto ad una sfera fisiologica, ma di un intero percorso d’individuazione fallimentare del pensiero. Mi spiego: se si toglie alle parole il loro potenziale evocativo di significato, se si mette da parte l’incedere del nostro percorso nel comprendere il mondo, allora rinunciamo alla vastità per rintanarci in una versione dell’umanità più piccina e meschina che per assuefarsi a non capire riconduce la sua esistenza ed il mondo ad un’entità già risolta, semplice, incapace di stupire e questo, si badi, perché l’occhio si è fatto tramortire, dal pensiero che malato rivolge la punta contro di sé. Nel discorso di Rovatti, dunque, non è presente solo uno studio sulla follia ma, più attentamente, una denuncia intorno al fatto che il nichilismo abbia dirottato, ancora una volta, la vitalità di un pensiero libero quale quello creato dalla deistituzionalizzazione. È la malattia del secolo XX che non siamo ancora riusciti a superare come corpo sociale, che ancora ci tartassa con il suo riduzionismo violento, che ancora chiede all’uomo di abdicare alla sua razionalità risolvendola in intellettualità del semplice, del dato, dell’istruibile. Ed è proprio qui che si instaura, vivificante, il discorso della follia, proprio perché essa rappresenta l’al di là della struttura, riprende il terreno dalle fondamenta per cogliere la vastità del territorio libero dalle congetture del dominio, dall’identità costituita antropicamente delle cose. Sarà Derrida ad illuminarci con le sue parole: «Senza una rischiosa tangenza con la follia, nessun pensiero rilancia il discorso» in quanto rivela, di fronte ad un’aporia, la possibilità di divergere dall’impostazione di un pensiero determinato per oltrepassare un ostacolo strutturale rielaborando la struttura stessa in una definizione che contenga dentro sé l’ostacolo e lo slancio che lo risolva in un’ottica evoluzionista del pensiero umano, come di una ricerca perennemente irrisolta che di fronte alla propria mancanza pone il dubbio e rifonda se stessa elevandosi via via alla comprensione. La follia dunque si pone anche come strumento per comprendere le funzioni della realtà che ci sfuggono, le relazioni che ignoriamo perché rappresentano un’alterità rispetto la nostra coscienza e la forzano a divenire, ad elevarsi fino a comprendere altre relazioni, altre possibilità di se stessa ed è questo il nucleo del significato del gioco che è anche la vita nel suo variare di regole a seconda di contesti, di impostazioni, di arbitrii e contingenze, come intelligentemente propone Rovatti nel suo saggio. Il mondo è il regno della possibilità, e se noi volessimo incontrarlo, volessimo elaborare una scienza che sia credibile, dovremo porci verso questa dimensione a cavalcioni sul muro di cinta, dice Heidegger: «Nel comprendere è contenuto esistenzialmente il modo d’essere dell’esserci (senso dell’essere nell’ente) in quanto poter essere. Esserci è, in senso primario, un esser possibile» ovvero, è nella dimensione della possibilità che noi dobbiamo intendere la nostra presenzialità al mondo ed è da questa dimensione esistenziale che noi possiamo comprendere. Ciò è particolarmente interessante perché per Heidegger comprendere è sempre un che di intonato[*], vale a dire che è la compiutezza del trovarsi[†], e perciò, seguendo il filo del discorso, la possibilità risulta l’essenza della nostra dimensione esistenziale rispetto l’essere e quindi apre alla nostra rettitudine d’essere nel mondo. Dunque, per tirare le fila di questa digressione filosofica intorno ad Heidegger, sembra che ostracizzare il regno del possibile, relegare il matto per così dire, rappresenti un autolesionismo rispetto una felice evoluzione del pensiero, un renderci villici e sciatti nell’atto di pensare e dunque retrocedere nelle considerazioni che riguardano noi, i nostri reali bisogni e le nostre direzioni che invece prendono linfa e si nutrono di spessore solo in una felice eterogeneità dove la vita non è scontata nelle sue determinazioni ma si mostra a noi ancora come qualcosa di spiazzante, come qualcosa di sublime e pulsante.
[*]Sein und Zeit, ed. Mondadori, pag. 211
[†]Sein und Zeit, ed. Mondadori, pag. 195