Di Gabriele Di Luca, insegnante, traduttore e giornalista
Prendersi cura delle persone nel loro contesto vitale: un libro e un film mostrano la lezione delle microaree di Trieste
Non smettono di “basagliare”, Maria Grazia Cogliati Dezza e Peppe Dell’Acqua, storica coppia della rivoluzione (tecnicamente: riforma) che portò alla chiusura dei manicomi negli anni Settanta voluta per l’appunto da Franco Basaglia, quindi, in simbiosi e per vie differenti, protagonisti dell’applicazione dei principi de-istituzionalizzanti teorizzati dallo psichiatra veneziano all’intero ambito della cura e dei servizi alla persona. L’occasione per rivederli nella nostra provincia – colta meritoriamente dal Centro per la Cultura di Merano mercoledì 10 aprile – era la presentazione del libro La città che cura. Microaree e periferie della salute (Edizioni AlphaBeta Verlag, Collana 180) unitamente al film di Erika Rossi, che porta lo stesso titolo e che del volume curato da Maria Grazia e Giovanna Gallo rappresenta molto più di una semplice illustrazione animata. Nella veloce presentazione, l’editore Aldo Mazza e la stessa Maria Grazia hanno cercato di mettere in luce in cosa consiste il valore dell’esperienza triestina delle microaree, esperienza che ormai esiste da quasi venti anni e nel frattempo si è articolata in 16 unità operative inerenti circa 18.000 persone.
Un aneddoto (“storia verissima”, assicura Maria Grazia) può forse servire a mettere subito a fuoco di cosa si parla senza avvitarci in preamboli troppo teorici:
Immaginatevi due donne, la prima sorda e la seconda cieca, che vivono su due piani diversi di uno stesso palazzo. Entrambe ricevono la visita di un operatore sociale che porta loro il pranzo. Quando l’operatore suona alla porta accade però un fatto spiacevole. La sorda non sente, quindi non apre, la cieca sente, ma non va a ritirare il pranzo perché non può scendere le scale. Alla fine rimangono entrambe senza mangiare. Come si può risolvere la situazione? Se esistesse qualcuno in grado di suggerire alla sorda e alla cieca di passare un po’ di tempo insieme, almeno durante l’ora del pranzo, potrebbe verificarsi una collaborazione proficua: udendo il campanello, la cieca farebbe segno alla sorda che è arrivato l’operatore, e questa scenderebbe rapidamente le scale per ritirare il cibo. In altre parole: solo mettendo in comune queste competenze diverse, solo facendo letteralmente comunità, è possibile superare gli ostacoli davanti ai quali i singoli talvolta soccombono. Il concetto di microarea non è che l’applicazione – su scala più ampia – di questo semplice principio. Non solo due donne isolate in un condominio, quindi, ma più case, più strade, una porzione di quartiere in cui alcuni operatori (un’assistente sociale, un medico, nonché decine di volontari) agiscono portando concreta assistenza a chi manifesta difficoltà o anche solo l’esigenza di essere aiutato. E poi un luogo in cui convergere, un “portierato sociale”, ossia uno spazio dove ci si ritrova per misurarsi la pressione, pesarsi, ascoltare un parere medico, anche per giocare a tombola, fare i compiti o mangiare un piatto caldo. “Tutti danno una mano e ognuno si appropria della microarea a suo modo”, spiega Maria Grazia , “in questo modo si spezza l’isolamento e si contribuisce a rigenerare un tessuto urbano altrimenti incapace di ridurre l’area dello svantaggio”.
Il film di Erika Rossi, si diceva, non è soltanto l’illustrazione documentaristica del lavoro svolto da una microarea particolare (quella di Ponziana) e dalla sua meravigliosa referente, Monica Ghiretti. Selezionando un “girato” di quasi due anni, Erika è riuscita a portarci nelle pieghe di tre vite sospese, a raccontarci le difficoltà, ma anche i progressi e le ricadute di tre uomini assistiti proprio grazie alla rete generata dall’intervento sul territorio. Le storie di Plinio, un anziano pianista ormai quasi recluso in casa propria, di Roberto, afflitto dai postumi di un ictus, e di Maurizio, storico tossicodipendente triestino, mostrano che dall’abbandono è possibile uscire se nascono opportunità d’incontro e di relazione (partecipare ad uno spettacolo teatrale, per esempio), se insomma la condivisione torna a suscitare quella spinta vitale, di affermazione positiva della vita, che la solitudine invece reprime e alla fine spegne. Il lavoro di una microarea, si potrebbe dire riassumendo, interseca aspetti sanitari e sociali, con ricadute positive su entrambi. È infatti chiaro che in contesti in cui l’incidenza di determinate patologie non viene mitigata da un tessuto sociale in grado di attutirne gli effetti, si assiste ad un aumento esponenziale dell’uso di farmaci e si incrementa di conseguenza il ricorso ai ricoveri ospedalieri. Di più: per citare Franco Rotelli (che firma la prefazione al volume) senza questo lavoro di ampliamento delle strutture relazionali non verrebbero abbattuti “i muri che continuamente si innalzano tra ospedale e territorio, tra medici di medicina generale e specialisti, tra servizi sanitari e assistenziali”. Il futuro del sistema sanitario può poggiare solo su un maggiore coinvolgimento delle persone riguardo al proprio progetto di salute e sul diritto dei malati di essere curati a domicilio. “Mettere al centro del dispositivo il capitale sociale delle comunità locali – conclude Rotelli –, connettendo le risorse delle persone con quelle delle istituzioni: è questa la sfida della città che cura, una città capace di trovare risposte ai bisogni individuali, affrontandoli come laboratori di risposte a problemi e domande collettive”. Dopo l’anteprima meranese, mercoledì prossimo (17 aprile) il libro e il film La città che cura saranno presentati al cinema Ariston di Trieste (con inizio alle ore 17.00). Insieme alle autrici del libro, l’incontro è moderato da Fabrizio Barca (Fondazione Basso, Forum Disegualianze Diversità). Seguiranno poi altre date, quasi venti, in vari luoghi d’Italia, affinché il modello di Trieste venga conosciuto e fornisca l’ispirazione necessaria per poter essere replicato. Sarebbe una cosa bellissima e utilissima.