Piccoli passi, muri ridipinti, uniformi sostituite da vestiti, giri in Cinquecento, per gente che aveva preso solo ambulanze
di Adriano Sofri
Ho incontrato Peppe Dell’Acqua, che è sempre un piacere. Dell’Acqua (Solofra, 1947) è dei protagonisti della rivoluzione che aprì i manicomi e volle trasformare i matti in cittadini. L’esperienza di Dell’Acqua è legata soprattutto a Trieste, città nella cui lingua covava una bella premessa, perché a Trieste si dice “matto” per dire una persona, “un bon mato” per dire una brava persona. Lui l’ha raccontata nei suoi libri, in particolare “Non ho l’arma che uccide il leone. La vera storia del cambiamento nella Trieste di Basaglia e nel manicomio di San Giovanni”. Dal 2010 ha inaugurato una collana, “180. Archivio critico della salute mentale”, Edizioni Alpha Beta, Merano, che è diventata lo strumento più ricco per chi abbia interesse alla questione della salute mentale. Mi ha regalato l’ultimo titolo, “All’ombra dei ciliegi giapponesi. Gorizia 1961”, il cui autore è l’esule fiumano poi bolzanino Antonio Slavich (1935-2009). E’ un libro bellissimo che racconta passo dietro passo – piccoli passi, infatti, muri ridipinti, uniformi sostituite da vestiti, giri in Cinquecento, per gente che aveva preso solo un’ambulanza – la riforma che Basaglia e Slavich e pochissimi altri realizzarono in quella città e in quel manicomio di frontiera, e che da lì si sarebbe estesa altrove. Libro bellissimo anche per chi ritenga di non avere alcun movente per occuparsi di un manicomio, perché Slavich ha un tratto franco e ironico, drammatico e misurato, che spinge la lettrice o il lettore a fare il tifo per lui e Basaglia e i loro matti, anche quando si sbrigano a richiudere da dentro le porte che improvvisamente, dopo secoli, si sono spalancate davanti a loro, come se vi sentissero un errore e un rischio. Slavich aveva già raccontato la propria esperienza ferrarese, successiva (“La scopa meravigliante”, 2003) e rinunciato a raccontare una amara esperienza genovese, interrotta poi da una lunga malattia. Questo, che è il racconto tardo della sua prima esperienza, è anche forse il più bel libro sul ‘68 di questo sgangherato cinquantenario.
In un giro breve di anni, da quando i malati “erano legati al letto o agli alberi e morivano come le mosche” a quando Gorizia diventò, suo buon o malgrado, “il luogo migliore per andare a passare l’estate” per studenti, intellettuali, artisti e pellegrini di quel Terzo mondo interno, la loro esperienza ebbe un primo compimento. Basaglia, dopo un anno americano, andò a Parma e Slavich lo seguì, scegliendo di ricominciare daccapo. Si conoscevano da dieci anni, maestro e allievo (e vice): Basaglia allora, in veneziano come sempre, gli propose di darsi del tu.
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Articolo da Il Foglio