Nella critica o autocritica psichiatrica un passaggio fondamentale è stato la ridefinizione del campo di competenza dei servizi di salute mentale. Quando si è iniziato a pensare l’altro non come pazzo ma come persona con sofferenza mentale, ci si è anche accorti che la sofferenza riguarda un po’ tutti e allora l’orizzonte dei servizi di salute mentale si è ampliato: anche chi ha problemi d’ansia o depressioneè diventato un potenziale utente dei servizi. Uno degli effetti della trasformazione della psichiatria è stato, quindi, l’aumento del numero di persone che ne hanno bisogno. Allora, se da quando non c’è più il manicomio c’è più gente che soffre, forse la pazzia è contagiosa? Per evitare queste conclusioni assurde è necessario avere ben presente il senso della trasformazione della psichiatria, perché il mero dato statistico può essere fuorviante.
Fabrizio Starace nell’articolo “Salute mentale, la mappa del disagio”, pubblicato il 13 febbraio sul Sole 24 Ore (LINK), interpreta l’aumento del «fabbisogno di salute mentale» come «cospicuo aumento dei problemi di salute mentale della popolazione».L’intento di Starace è nobile e pienamente condivisibile: sollecitare le istituzioni a incrementare i finanziamenti ai servizi di salute mentale a fronte di una domanda crescente, ma occorre analizzare con attenzione le cause dell’aumento del fabbisogno di salute mentale, altrimenti sembra che stiamo impazzendo tutti e rischiamo di fare passi indietro sul fronte teorico.
I dati statistici sui disturbi psichiatrici comuni (Dpc)mostrano l’aumento delle diagnosi e delle persone con alta probabilità di presentare disturbi ansiosi o depressivi, ma la causa di questo aumento non è necessariamente quella indicata da Starace (più malessere nella popolazione): può essere che a parità di condizioni (rapporto benessere/malessere) sempre più persone si rendano conto che la salute mentale sia qualcosa che li riguardi, specialmente perché –gradualmente – la società inizia a comprendere il senso della nuova salute mentale e, al contempo, sempre gradualmente, la salute mentale diventa veramente qualcosa di diverso dalla vecchia psichiatria.
Secondo quest’analisi l’aumento del fabbisogno di salute mentale è causato dal progressivo attenuarsi dello stigma della pazzia (c’è sempre meno vergogna nel concepirsi come bisognosi di aiuto) e, inoltre, dalla maggiore sensibilità delle persone nei confronti della propria salute: la diffusione della cultura e del benessere ha cambiato le aspettative e gli obiettivi delle persone, non si tratta più di sopravvivere, si vuol stare bene. I disturbi psichiatrici comuni rientrano a pieno titolo nel campo della salute mentale, ma solo da quando per ‘salute mentale’ intendiamo qualcosa di più ampio che riguarda il benessere delle persone.
Indagare le cause dell’aumento del fabbisogno di salute mentale può sembrare superfluo, ma non lo è, perché, se consideriamo il 14,8% della popolazione come potenziali utenti di salute mentale e manteniamo una concezione vecchia (o ibrida) di psichiatria, corriamo il rischio di psichiatrizzare la società: invece di slegare i matti, cominciamo a legare tutti.
La mossa di aprire la salute mentale al 14,8% della popolazione o, forse, al 100% della popolazione, ci è consentita solo se la psichiatria avrà completato il processo di cambiamento in salute mentale comunitaria: qui entra la comunità, è qualcosa che riguarda tutti, perché tutti abbiamo fragilità, difficoltà, sofferenze. Per questa salute mentale è giusto chiedere alle istituzioni un aumento dei finanziamenti, perché si fa carico della qualità della vita dei cittadini. Se, invece, «gli strumenti di screening» – e diciamolo, un po’ evocano il Panopticon di Bentham – cominciano a includere nel discorso psichiatrico standard sempre più persone, allora torniamo alla medicalizzazione dei soggetti, esattamente ciò da cui volevamo allontanarci attraverso il percorso culturale intrapreso da Basaglia.
Se la salute mentale comunitaria vincerà la sfida culturale, potrà includere tutti, perché avrà rinunciato a ridurre le persone a soggetti da normalizzare, avrà rinunciato al canto seducente del positivismo che rende oggetto tutto e tutti, avrà rinunciato al sogno spinoziano di geometrizzare le emozioni e alla tentazione contemporanea di medicalizzare le emozioni negative.
Per questo commento ringraziamo Sergio Keller, laureato in filosofia, ha studiato a Trieste, Bologna e Tübingen. Sta lavorando a un documentario sui servizi di salute mentale della provincia di Rio Negro (Argentina).