In Italia oggi, in 8/9 su 10 dei circa 320 servizi psichiatrici di diagnosi e cura, la contenzione è pratica diffusa. Di routine in alcuni luoghi, più raramente in altri. Una ricerca dell’Istituto superiore di Sanità del 2005 accertava questo dato e le cose, purtroppo, dodici anni dopo non sono cambiate. Bisognerebbe oggi, con maggiore rigore, aggiornare il dato e prendere atto della crescente diffusione di questa pratica. Nel giorno dell’indagine, in alcuni servizi psichiatrici, erano legate al letto fino a 4 persone contemporaneamente. Più gli uomini che le donne e più frequentemente gli immigrati e gli uomini di colore. Quanto accade in Italia è consuetudine in ogni parte del mondo, nei paesi ricchi, come più tragicamente nei paesi poveri e poverissimi. Fu all’epoca rilevato anche l’uso non trascurabile della contenzione in alcuni reparti di neuropsichiatria infantile. Negli ultimi dieci anni, la pratica della contenzione nei confronti dei minori non ha smesso di essere esercitata. Da quanto siamo in grado di sapere da osservazioni empiriche, si è affermata anche nei reparti di neuropsichiatria, ma anche in una quantità di istituti non meglio definibili.
L’illiceità del trattamento è riconosciuta da tutti e dovunque, anche quando le scarse risorse di programmi e di personale, fanno apparire inevitabile il ricorso alla contenzione. Tuttavia, nella maggioranza dei luoghi della cura, si ricorre a questo trattamento e con imbarazzo si fa di tutto per non dire. A nulla serve sapere che della contenzione si può fare a meno. Ci sono luoghi in Italia come in altri paesi dove gli operatori e le organizzazioni accettano come precondizione di qualsiasi intervento terapeutico il rifiuto della contenzione stessa. Molto hanno fatto le campagne contro i trattamenti restrittivi e le denunce di autorevoli organismi internazionali. Eppure l’inerzia delle organizzazioni sanitarie, la disattenzione degli amministratori e dei politici, il lungo e faticoso riposizionamento dello sguardo sul malato di mente, le esagerate e ingiustificabili preoccupazioni a garantire la sicurezza degli operatori rallentano, fino a rendere paradossalmente utopica, l’abolizione delle pratiche contenitive.
Al contrario si è potuto constatare che, laddove la contenzione è stata superata, si opera con le porte aperte, ci si trova di fronte a servizi territoriali più articolati e disposti a farsi carico anche della crisi e dei comportamenti più preoccupanti. Anche il paventato rischio di infortuni, nei quali possono incorrere gli operatori nel contatto fisico con i pazienti, diminuisce sensibilmente. Il risultato più rilevante dell’indagine del 2005 non è tanto il grande numero di servizi con le porte chiuse, ma l’evidente possibilità che della contenzione e delle porte chiuse è possibile farne a meno: non in tutti i Servizi psichiatrici di diagnosi e cura (Spdc) si ricorre alla contenzione. Considerando che questi sono circa 320, diffusi in tutto il territorio nazionale, almeno in 60, le persone non rischiano un trattamento così degradante.