Giorgio Antonucci è stato un medico e psicanalista italiano, punto di riferimento dell’antipsichiatria in Italia è nato nel1933 a Lucca, ed è morto lo scorso 18 novembre a Firenze.
La conversazione
“Gli istituti psichiatrici chiusi sono dei luoghi di tortura, delle sepolture…”.
Giorgio Antonucci non ha niente del medico tradizionale, indaffarato, autoritario, privo di abbandoni che siamo abituati a conoscere. La sua faccia triste esprime una dolcezza morbida, acuta, quasi dolorosa. I suoi occhi sono pieni di una timida assorta attenzione.
“Ma la nuova legge, la riforma ha cambiato qualcosa?”, gli chiedo.
“Certo, ha cambiato in meglio… Ma i medici sono sempre gli stessi di prima e hanno un’idea punitiva e inquisitiva della psichiatria”.
“Quindi è un po’ come per l’aborto: fatta la legge non si riesce ad applicarla per l’ostruzionismo di chi tiene il potere negli ospedali”.
“E così infatti… Nel mio caso quei sepolti vivi che dopo cinque anni di lavoro durissimo avevo riportato alla vita, rischiano di tornare in stato di prigionia”.
“Puoi raccontare cos’è successo?”.
“L’ospedale in cui lavoro, l’Istituto psichiatrico di Imola, sta cambiando struttura in seguito alla riforma. E il lavoro che abbiamo fatto coi degenti rischia di saltare per aria per l’ostilità dei nuovi dirigenti”.
“Ma prima chi ti appoggiava?”.
“Io sono stato chiamato a Imola da Cotti (direttore dell’Istituto) che voleva cambiare le strutture tradizionali. Ma presto ci trovammo tutti contro, medici e personale”.
“Cosa facevi di così scandaloso?”.
“Per prima cosa chiesi di lavorare nel reparto dei più pericolosi, i cosiddetti ‘irrecuperabili’ “.
“Irrecuperabili cioè non guaribili, è questo che vuol dire?”
“Per i medici tradizionali queste persone hanno un difetto nel cervello quello che viene chiamato malattia mentale, un difetto che non gli permette di avere una vita sociale accettabile. Secondo la legge, che ora è stata abolita, erano segregati perché pericolosi a se stessi e agli altri, propensi a creare scandalo pubblico”.
“Malattia mentale quindi qualcosa di fisiologico, di interno ?”.
“Sì, più o meno un guasto al cervello, derivante da una debolezza congenita. Secondo me invece i degenti non hanno assolutamente niente di diverso dagli altri, solo che si sono trovati in situazioni sociali difficili, di svantaggio nei riguardi del potere”.
“Quindi per te la cosiddetta malattia mentale è esclusivamente un prodotto sociale”.
“E nel ‘68 che si è cominciato a discutere pubblicamente sull’esistenza o meno della malattia mentale. Io ho lavorato con Basaglia nel ‘69. Lui la malattia mentale la vede come una cosa dinamica che investe le persone meno resistenti. Per me la psichiatria è un’ideologia che nasconde i problemi reali delle persone ricoverate. Freud stesso diceva che occupandosi dei conflitti nevrotici aveva smesso di fare il medico e si era messo a fare il biografo”.
“E cosa pensi di quei conflitti arcaici che si pensa superino i problemi sociali e mettano radici nel profondo dell’inconscio ?”.
“Non si possono applicare le categorie di Freud ai braccianti calabresi perché Freud analizza i borghesi dell’Ottocento”.
“Quindi non credi all’universalità del complesso di Edipo, per esempio?”.
“No, decisamente… Il complesso di Edipo, nasce in un certo tipo di famiglia, in una data situazione, in una data cultura”.
“E quali sono i tuoi metodi di lavoro a cui i medici sono così ostili?”.
“Ti faccio un esempio, quando arrivai a Reggio Emilia incontrai una donna, Santina, di 40 anni, che lavorava nelle montagne reggiane, era moglie di un muratore, aveva tre figli, era stata ricoverata molte volte. Per i medici aveva qualcosa di guasto da curare. Le facevano gli elettroshock. Io andai a parlare con la famiglia, con lei, col marito. Venne fuori una storia drammatica; Santina era figlia di contadini, giovanissima aveva fatto la domestica a Genova subendo una serie di esperienze traumatiche. Poi era tornata al paese, si era sposata. Ma ogni volta che aspettava un figlio stava male e il marito l’accompagnava all’ospedale. Qui la riempivano di psicofarmaci e le applicavano gli elettrodi. Per la famiglia quel suo uscire e entrare dall’ospedale era normale”.
“E guarita poi Santina?”.
“Sì… Intanto ho eliminato gli psicofarmaci e l’elettroshock, poi ho parlato col marito, col sindaco del paese, coi vicini. Col marito ho avuto una discussione dura, una lite. Ma dopo le cose sono cambiate. Santina non è più stata ricoverata e quando è rimasta di nuovo incinta non è stata più male”.
“Quindi analisi della situazione reale in cui vive la persona che sta male più che del suo inconscio”.
“L’atteggiamento del medico è importantissimo. Non si può avere rapporti di fiducia con persone che non consideri uguali a te. I medici trattano i ricoverati come degli inferiori e loro rispondono con la violenza o l’apatia”.
“Mi dicevi che hai lavorato soprattutto in reparti di donne…”.
“Le donne spesso sono dentro per ragioni di costume, per avere trasgredito la morale comune. A Imola ho liberato una donna che era stata internata perché ragazza madre. Da 26 anni stava legata al letto. Le ho chiesto perché l’avevano chiusa. E lei mi ha detto: “Perché sono schizofrenica”. Ho insistito chiedendole perché secondo lei era stata chiusa. E alla fine mi ha detto: “Perché mi piacciono gli uomini”. Testuale. Dopo un anno di lavoro l’ho dimessa. Il problema spesso è di trovare qualcuno che le accolga. Lei per fortuna aveva un fratello che l’amava e l’ha accolta in casa.
“Da un libro che è uscito nelle Edizioni delle donne infatti risulta che la maggior parte delle donne vengono internate per trasgressioni ai doveri sessuali o casalinghi, cioè per rifiuto del ruolo tradizionale”.
“Quando io entrai nel reparto delle irrecuperabili i medici mi ridevano dietro. C’erano donne legate da dieci, venti anni, che non erano più capaci di parlare, di camminare, di mangiare. Io le slegai. Tutti si aspettavano la catastrofe. Fra l’altro c’era stato il precedente di un medico che aveva dato l’ordine di slegarle e poi se ne era andato. Le donne, abituate alla costrizione, con tutta l’angoscia che avevano dentro, appena slegate hanno cominciato a picchiarsi. E subito naturalmente le avevano rilegate”.
“E tu come hai fatto?”.
“Io le ho slegate, ma non tutte insieme, due per volta e poi stando presente, parlando con loro, con le infermiere. Poi feci aprire le porte, levare le inferriate. Il reparto era chiuso come una fortezza. Infine fra lo scandalo dell’istituto, le feci uscire nel parco. Il lavoro più duro era, giorno per giorno, ridare loro la fiducia in sé, la capacità di essere indipendenti”.
“E ci sei riuscito?”.
“Dopo tanti anni di letto, legate mani e piedi da cinture di pelle, la camicia di forza e qualche volta, come ho visto addosso a una contadina che aveva l’abitudine di sputare una specie di museruola di plastica che le chiudeva la bocca, si facevano tutto addosso, non volevano vestirsi, non camminavano. Non riuscivano neanche a mangiare—molte avevano i denti davanti spezzati sia per gli elettroshock che per l’uso dello scalpello quando si rifiutavano di aprire la bocca—avevano i muscoli atrofizzati. Era come fare rivivere dei morti”.
“E il personale come reagiva?”.
“Le infermiere prima avevano paura, paura delle malate—abituate ad essere legate come cani quando venivano slegate in effetti mordevano—paura dei medici che le consideravano delle serve e anche le usavano come terreno di caccia. Da principio quindi hanno fatto difficoltà ma poi credo che sia stato un sollievo anche per loro”.
“E quanti reparti hai aperto con questo sistema?”.
“Dopo il 14, il più difficile, ho aperto il l0 e poi il 17 maschile, anche quello considerato irrecuperabile. Nel frattempo è cambiato qualcosa, altri reparti provavano ad aprirsi, anche se a metà”.
“E ora?”.
“Ora con la riforma, Cotti non è più direttore dell’Istituto psichiatrico, le sezioni dipendono dal primario. E questo primario non crede assolutamente ai metodi che uso io. Lui è per i vecchi sistemi dell’elettroshock, della camicia di forza, degli psicofarmaci e i centoquarantasette degenti che ora stanno slegati rischiano di tornare in cattività”.
“Cosa si può fare per evitarlo?”.
“Parlarne, fare sapere alla gente come stanno le cose. Quando io ho detto alla madre di quella donna che stava legata da 20 anni che sua figlia non avrebbe mai dovuto essere ricoverata, si è messa a piangere: “A me nessuno mi aveva mai detto una cosa simile”. La gente non sa si affida ai medici e non immagina che la maggior parte dei casi sono dovuti a conflitti facilmente risolvibili. I medici, anziché guarirli, li puniscono, li legano, li rendono inoffensivi…”.
“Fanno i poliziotti insomma anziché i guaritori”.
“Legare una donna per venti anni a un letto vuol dire ucciderla. . . “.
“Quindi queste donne dimostrano una grande forza non facendosi distruggere del tutto…”.
“Infatti… Se le avessi viste quando sono uscite nel parco la prima volta… Rovinate Come sono, coi denti rotti, i muscoli atrofizzati, la lingua inarticolata… Erano felici ed esprimevano questa felicità con grande vitalità. Tornare a legarle sarebbe un crimine”.
Credo che non ci sia bisogno di commenti a questo dialogo con Antonucci. Io stessa l’anno scorso qui a Roma ho seguito un esperimento di un gruppo di ragazzi che hanno “liberato” degli handicappati. Costoro prima (chiusi e rimpinzati di pillole) non parlavano, non mangiavano da soli, e non potevano uscire. Dopo un anno di lavoro in comune giravano il quartiere da soli, andavano a lavorare, discutevano, partecipavano, decidevano come gestire i soldi, ecc… E non si tratta di beneficenza ma di una migliore convivenza di tutti. Rinchiudere e legare chi appare diverso è come chiudere e legare una parte di noi, forse la migliore, certamente la più carica di originalità e di sensibilità.
La festa
E’ un sabato freddo. La neve spalata ai bordi della strada si scioglie lentamente colando acqua nera. A Imola ci sono tre gradi sotto zero. Le gomme della macchina scivolano sopra uno strato di brina ghiacciata. Chiedo dell’ospedale della Scaletta. Mi indicano un alto muro dietro al quale si alzano dei blocchi gialli. Chiedo del padiglione 10. E laggiù, mi dicono. Imbocco un vialetto corto e largo fiancheggiato da grossi ippocastani e posteggio accanto ad un autobus celeste.
Una volta aperta la porta del reparto mi trovo in una sala lunga e stretta affollata di gente. In fondo sotto un affresco di mari ondosi su cui navigano barche dalle vele rosse, ci sono i ragazzi dell’Aquila venuti qui per suonare. Fra l’orchestra e la porta tante sedie con tanti ricoverati donne e uomini. La festa l’hanno organizzata loro, con l’aiuto del dottor Antonucci e degli infermieri.
Una donna vestita di giallo e di lilla mi abbraccia e mi bacia sulle due guance. Un’altra donna magra, senza denti, i capelli scarmigliati, gli occhi splendenti, un sorriso mesto, si siede accanto a me e mi spiega, con gesti e parole scombinate ma piene di entusiasmo, cosa ha sognato la notte scorsa. La musica di Mozart, con la sua armonia esplosiva dilata gli spazi, entra in queste facce contratte segnate dalle torture trasformando la bruttezza in bellezza, si fa liquido delicato piacere.
I ragazzi dell’orchestra con le loro barbe, i loro blue jeans, i loro capelli lunghi suonano, impetuosamente brandendo i corni, i violoncelli gli oboi. Alcuni dei degenti si mettono a ballare. Altri ascoltano a bocca aperta, facendosi cullare dalla meraviglia di quelle note. Una donna mi invita a ballare. E’ bassa, robusta, ha i capelli neri ispidi che le circondano la faccia dai tratti marcati. Le mancano i denti davanti, come a tante altre; ha gli occhi brillanti, un’espressione di testarda ilarità che la rendono infantile nonostante i suoi anni.
Balliamo come due orsi, in un abbraccio goffo e pesante. Più tardi saprò che questa donna è stata legata per anni, e che quando il reparto era chiuso non riusciva a parlare, a mangiare da sola, sputava addosso a chiunque le si avvicinasse, rifiutava i vestiti e le scarpe. Ora balla, parla, mangia, cammina come una persona qualsiasi.
Nessuno aveva pensato in tanti anni che proprio nel suo sputare stava il segno della sua integrità: anziché diventare un vegetale come volevano i medici, si accaniva a protestare, nel solo modo che le era ormai possibile, contro la prigionia. Sottoposta agli elettroshock (ne ha fatti più di 50), piena di psicofarmaci, legata mani e piedi col bavaglio sulla bocca, era oggettivamente una “idiota”. Ora è tornata ad essere una persona intelligente.
Passa una infermiera con un vassoio pieno di paste. Gli occhi dei ricoverati si fissano avidi su quei pasticcini. Come per tutti i reclusi il cibo è diventato sacro: nel cibo si cerca affetto. soddisfazione sessuale, magia. Il cibo, soprattutto i dolci ricordano al recluso che il suo corpo esiste anche per provare dei piaceri, che la sua pancia non è solo un sacco in cui si cacciano le minestre e le medicine per mantenersi in vita, ma è anche un posto dove lasciare scivolare qualcosa di assolutamente inutile, forse anche dannoso, ma quanto capriccioso, tenero e amabile! Un ricoverato che stava per uscire torna indietro, posa religiosamente la giacca su una sedia e aspetta con pazienza che il vassoio arrivi da lui. Una donna si asciuga la bocca con cura meticolosa, posa il bicchiere di carta pieno di aranciata sotto la sedia, si sporge in avanti, pronta a ricevere la sua parte.
Piero Colacicchi, uno degli artisti che collaborano col dottor Antonucci, mi chiede se voglio fare un giro per gli altri padiglioni. Dico di sì. Usciamo nel freddo di un crepuscolo celeste e argento. Camminiamo in mezzo agli ippocastani, ai tigli, alle acacie profumate fra i fabbricati tutti uguali dell’ex ospedale psichiatrico. Molte finestre sono illuminate. Dietro le finestre si intravedono delle facce bianche, attonite. Bussiamo a una porta. Ci viene ad aprire una infermiera con un grosso mazzo di chiavi alla vita. Nella sala ci sono una quarantina di donne chiuse dentro grembiuli grigi tutti uguali. Ci assale un tanfo di disinfettante, misto a cibo ordinario e sudore che dà il capogiro. Tre infermiere robuste, pratiche, piene di buon senso e di allegria ci mostrano il dormitorio con i letti perfettamente puliti, allineati uno accanto all’altro, il refettorio con le tavole coperte da tovaglie di plastica a quadri. Qui dormono, qui mangiano, qui si riposano. Tre grandi sale in cui convivono quarantacinque donne di tutte le età. I gabinetti sono 4, i bagni due, i lavandini 6. La porta di ingresso è chiusa a chiave. Le finestre sono sbarrate. La differenza coi reparti aperti si sente subito. Lì i ricoverati si sentono padroni di sé, qui sono proprietà di coloro che li controllano, li puniscono. Lì sono vestiti di tutti i colori con roba che hanno scelto loro; qui portano divise che mortificano i loro corpi e li rendono tutti uguali. Lì sono ascoltati come persone che hanno avuto delle difficoltà con l’ambiente in cui vivevano ma non per questo hanno perso la capacità di capire e sentire: qui sono trattati con la bonomia paternalistica di chi decide per loro, agisce per loro, pensa per loro. Le infermiere non possono non fare ciò che i medici dicono loro di fare. La loro personalità viene fuori clandestinamente nei rapporti a tu per tu con le degenti, e sono rapporti fatti di crudeltà e di dolcezza come tutti i rapporti non liberi. Esse si fanno volentieri mamme a volte tenerissime e cordiali, a volte violente e sadiche. Non possono, perché non gli è permesso e nessuno gliel’ha insegnato, avere un rapporto da pari a pari. In un altro padiglione chiuso di soli uomini noto che il movimento avviene tutto per linee orizzontali. Mentre le donne girano in cerchio gli uomini vanno su e giù tracciando delle parallele sul pavimento logoro. Un ragazzo mi mostra una scatola di cartone in cui tiene chiuso il suo segreto. Vuole che tocchi la scatola ma non devo aprirla. Ha le orecchie come due riccioli di carne. E sordo e muto. E guarda con due occhi dolorosi e lontani. Un altro si presenta compito, saluta, si ravvia i capelli, dice alcune frasi cerimoniose, risaluta, si allontana. Hanno qualcosa di spettrale, di spento che, ora capisco, è dovuto soprattutto agli psicofarmaci. Dal padiglione maschile chiuso passiamo a quello aperto. L’atmosfera è subito diversa: confusione, vocio, disordine, colori. Ci viene incontro un uomo mezzo nudo che si muove a quattro zampe. Il peso del corpo gravita tutto sulle due grosse mani callose. Le spalle sono da lottatore; le gambe, atrofizzate, molli e rattrappite, se ne stanno ciondoloni senza forza. Quest’uomo è stato chiuso e legato da quando aveva otto anni. Oggi ne ha quaranta e solo da poco è libero di muoversi come vuole. Si guarda intorno torvo e risoluto; il candore gli illumina le guance. Nello sguardo c’è il ricordo truce di chi è stato costretto a farsi scimmia per sopravvivere. Torniamo alla festa nel padiglione aperto delle donne. Ora molti dei ricoverati chiacchierano con quelli dell’orchestra facendo ressa attorno agli strumenti, toccandoli provandoli. La maggior parte delle seggiole solo vuote. Il pavimento è cosparso di bicchieri di carta. C’è un’atmosfera di eccitazione languida di fine festa, un calore diffuso che appanna i vetri e lustra le guance dei ricoverati.
Prima di andare via, ormai è l’ora di cena, visitiamo il dormitorio dove alcune donne sono rimaste a letto perché malate. Ci accolgono con battute scherzose, allegramente, salvo una che soffre di acuti dolori alla pancia e mugola piano rannicchiata nel suo cantuccio. Le pareti sono coperte di stampe colorate, disegni, fiori, stelle. Una ragazza in vestaglia va e viene portando dei dolci.
Mentre i ragazzi del Gruppo da camera dell’Aquila rinfoderano i loro strumenti e i pittori che collaborano alle iniziative culturali (fra cui Luca Bramanti che ha dipinto molti degli affreschi qui) si preparano a tornare a casa, faccio qualche domanda ad Antonucci. Per prima cosa gli chiedo perché, visto il buon risultato che lui ha ottenuto, non si fa la stessa cosa negli altri padiglioni.
“Prima di tutto perché è molto faticoso – risponde Antonucci con la sua voce quieta, dolce – mi ci sono voluti cinque anni di lavoro durissimo per ridare fiducia a queste donne; cinque anni di conversazioni, di presenza anche notturna, di rapporto a tu per tu. Però non si tratta di una tecnica, ma di un diverso modo di concepire i rapporti umani ” . “In che consiste questo metodo nuovo per quanto riguarda i cosiddetti malati psichici?”
“Per me significa che i malati mentali non esistono e la psichiatria va completamente eliminata. I medici dovrebbero essere presenti solo per curare le malattie del corpo. Storicamente da noi la psichiatria è nata nel momento in cui la società si organizzava in modo sempre più rigido, e aveva bisogno di grandi spostamenti di mano d’opera. Durante queste deportazioni fatte in condizioni difficili, ostili molte persone rimanevano disturbate, confuse, non producevano più bene e quindi c’era l’esigenza di metterle da parte. Rosa Luxemburg dice: “Con l’accumulazione del capitale e lo spostamento delle persone si allargano i ghetti del proletariato”. Nel ‘600 in Francia quando si forma la monarchia assoluta (lo Stato), i manicomi venivano chiamati “luoghi di ospizio per persone povere che disturbano la comunità”. La psichiatria è venuta dopo come copertura ideologica. Nel trattato di psichiatria di Bleuler che è l’inventore del termine schizofrenia è detto che schizofrenici sono coloro che soffrono di depressioni, che si immobilizzano o girano intorno ossessivamente per il cortile. Ma che altro potevano fare così reclusi? Infine Bleuler conclude senza volere, comicamente: “Sono così strani che alle volte assomigliano a noi”. “Insomma tu dici che la malattia mentale non esiste ma esistono dei conflitti sociali di fronte a cui alcune persone più fragili o più oppresse soccombono.”
“Sono i medici spesso che fanno il malato. Ti faccio un esempio che mi è capitato recentemente a Firenze. Un bambino mancino viene sgridato dalla maestra perché “diverso” dagli altri. Il maestro di musica fa notare che l’allievo non batte bene il tempo. Il bambino comincia a sentirsi inferiore agli altri si rifiuta di andare a scuola. La madre ne parla con la maestra che le dice: “Suo figlio è anormale, lo faccia vedere da un medico” e la manda al Centro di igiene mentale. Lì uno psichiatra le dice che il figlio ha dei disturbi di “lateralità”, che va curato. Per caso a questo punto vengono da me. Dico alla madre che il bambino è sanissimo e ha il diritto di scrivere con la mano che vuole. Così lei va dalla maestra e finalmente difende i diritti del bambino”.
“Era un bambino ricco o povero?
“Il fatto è proprio questo: il bambino era di una famiglia che non conta e gli insegnanti avevano un atteggiamento di discriminazione sociale. Ti faccio un altro esempio: una donna sposata con un operaio, ha due bambini, fa la casalinga, non si intende bene col marito, comincia a soffrire di insonnia, di angosce, di paure. Sta male, dimagrisce, è nervosa. Il medico le consiglia di andare al Centro di igiene mentale. Lei si rifiuta di prendere gli psicofarmaci che le propongono; e allora la mandano all’ospedale civile dove gli psicofarmaci è costretta a prenderli per forza. Il trattamento sanitario è una violenza non serve a niente”.
“Alla Scaletta si fanno ancora gli elettroshock?”. “Non più. Da quando Cotti è entrato come direttore sono stati eliminati l’elettroshock e altre forme più vistose di tortura” . “E gli psicofarmaci e il letto di contenzione?”. “Gli psicofarmaci sono ancora usati largamente. In quanto al letto di contenzione, se il ricoverato non disturba viene lasciato a se stesso ma se disturba, lo si lega. Nei miei reparti (sono tre) ho abolito da tempo sia gli psicofarmaci che la contenzione. Da me se due litigano, li si lascia litigare. Da dieci anni che lavoro non ho mai fatto un ricovero obbligato, per me il ricovero obbligato è una deportazione”. “E la nuova legge in che modo ha cambiato le cose qui dentro?”. “Di fronte alla legge ora si verificano tre situazioni diverse: la prima riguarda quelli che già sono dentro le istituzioni psichiatriche, i lungodegenti; verso costoro la legge permette l’uso di vecchi metodi repressivi (quasi ovunque ancora si usano elettroshock, corsetti, detenzione e psicofarmaci); la seconda riguarda le persone al centro di conflitti nel territorio, per le quali la legge ammette l’uso di psicofarmaci per renderle innocue (vedi le ragazze che vengono rimpinzate di tranquillanti perché non escano la sera o perché non si droghino, o non pratichino il sesso); la terza riguarda le persone che non si riescono a controllare con psicofarmaci e per cui la legge prevede che vengano mandate all’ospedale civile dove saranno sottoposte al trattamento sanitario obbligatorio. In tutti i casi la linea del metodo psichiatrico è di tenere le persone sottomesse sotto controllo”.
“Qual è secondo te l’alternativa?”.
“L’alternativa sta nell’identificare i diritti individuali delle persone nella situazione sociale e storica in cui vivono e nell’ottenere il consenso e la partecipazione attiva della comunità attraverso i comitati di quartiere, i consigli di fabbrica, le scuole”. “Insomma sei d’accordo con Pirella (*) quando dice che ‘bisogna adottare iniziative precise per la formazione professionale dei ricoverati, occorre garantire loro il diritto di avere una casa’ “.? “Certo sono d’accordo. Però mi sembra che il discorso di Pirella non è del tutto chiaro. Mi sembra di capire che lui comunque vuole mantenere un certo tipo di assistenza psichiatrica. Mentre io sono per abolirla del tutto”.
La Stampa, 26.7., 29 e 30.12.’78 [Questa intervista è stata fatta nel 1978 dalla scrittrice Dacia Maraini a Giorgio Antonucci allora responsabile del reparto “agitate” dell’Ospedale Psichiatrico (cioè il Manicomio) di Imola; Giorgio Antonucci aveva appena finito –in cinque anni- di togliere dalla clausura e liberare dai metodi coercitivi tali donne; la legge ‘Basaglia’ 180 era stata promulgata da pochi mesi; il luogo de “la Festa” descritta nella seconda parte dell’intervista è l’ex reparto “agitate”; riferimenti su Giorgio Antonucci in fondo ]