thumbnailPer una psichiatria gentile

di Emanuela Nava

Alla fine è stata ricoverata, così non si poteva andare avanti, si rifiutava di prendere qualsiasi medicina che l’aiutasse a stare meglio. Ma il giorno in cui è stata portata al reparto di psichiatria, non dovrei dirglielo, era quasi addormentata. L’avevamo sedata noi, il papà e io, con le gocce nell’acqua per evitare che arrivassero i vigili, che le facessero il ricovero coatto, il TSO. Era morta una persona, un ragazzo grande e grosso qualche mese prima a Torino, ne avevano parlato anche i giornali. Si rifiutava di andare in ospedale, di farsi fare l’iniezione mensile, e durante la colluttazione con le forze dell’ordine non so, non ricordo bene, forse lo avevano stretto troppo al collo o lui aveva avuto un arresto cardiaco, ci eravamo impressionati, mio marito e io, non volevamo che accadesse anche a nostra figlia.

-E così, una volta in ospedale, le hanno tolto le stringhe delle scarpe, le hanno tolto la sciarpa di seta, il nastro con cui si legava i capelli, le hanno detto che era proibito tenere flaconi di shampoo o bagno schiuma, che se voleva lavarsi poteva usare la saponetta solida, oppure chiedere qualche goccia di shampoo agli infermieri. Hanno aggiunto che il reparto era chiuso a chiave, che non le era permesso di uscire. E che se voleva stare bene doveva collaborare.

-Ci sono voluti due giorni per farle la prima iniezione, mia figlia non voleva, ma non gridava, non faceva la matta, piangeva soltanto.

Sono stati bravi i medici, hanno preferito trattare. Non hanno usato la forza, tanto sapevano che prima o poi l’avrebbero messa KO. Lei desiderava solo lavarsi, aveva paura di disgustare gli altri ricoverati, non voleva avvicinarsi a nessuno, domandava persino ai dottori e agli infermieri di indossare la mascherina, non voleva essere annusata. E loro le hanno ripetuto di fidarsi, con i loro farmaci la puzza sarebbe sparita.

-La psicologa che ora segue anche a me e mio marito al CPS, dopo che ci siamo così tanto arrabbiati per quello che è successo, mi ha detto che sbaglio a chiamare le medicine formule magiche, ma per me i primi a chiamarle così sono stati i medici dell’ospedale. Prendi i farmaci e la puzza sparirà. Sembra quasi una pubblicità. Se non fosse stato per la dose, per il loro protocollo, 100 milligrammi e poi 150 dopo una settimana, due iniezioni che l’hanno stroncata, sarebbe stato anche bello scherzare un po’. Avrebbe fatto bene a tutti. A tutti noi che eravamo angosciati, anche a sua sorella, la mia figlia più grande, che ora piangeva più di lei, quando la vedeva camminare con le scarpe da ginnastica senza stringhe perché le pantofole, non c’era verso di fargliele indossare.

-Sembrava che, con quelle scarpe che si trascinava dalla camera al salottino per i parenti, ci stesse dicendo qualcosa, che non era un’assassina per prima cosa e poi neppure una suicida. Sì, con le stringhe non avrebbe strozzato nessuno e neppure se stessa.

-E comunque c’era sempre quella porta chiusa: quando andavamo a trovarla dovevamo sempre suonare e poi, dopo la visita, chiamare l’infermiere per farci riaprire. Ma Basaglia non aveva aperto le porte? E allora perché tutti le tenevano chiuse, come se i pazienti, le persone che non stavano bene, fossero tigri in gabbia?

-Io lo so, lo sa anche la mia figlia più grande che l’ha studiato a scuola, al corso di psicologia, tu finisci per diventare quello che gli altri pensano di te. E come in uno specchio, se gli altri lo pensano, finisci anche tu per credere che se sei matta, forse anche

pericolosa. E alla fine insieme a te lo credono anche gli altri, quelli che non lo credevano prima, gli amici e i conoscenti. E la prova è che quando ti ricoverano, quando sei in crisi, e magari parli con la principessa Leila o con Dart Fener di Star Wars, ti chiudono a

chiave. È così che poi, quando i matti tornano a casa, e magari non sono neppure più matti, nessuno li invita ai compleanni, alle feste di Natale, magari neppure ai matrimoni dei fratelli: è successo, me lo hanno raccontato. Forse hanno paura che alle feste i matti invitino anche l’Ammiraglio Ackbar. Ormai so tutto di Star Wars.

-Ma il sublime orrore è venuto dopo. Quando mia figlia è stata dimessa, la psichiatra del CPS, quella che l’aveva presa in carico anche se l’aveva vista solo un paio di volte, ha deciso che mia figlia avrebbe dovuto fare venti giorni di Day Hospital. Insomma tornare in ospedale ogni giorno per prendere un altro farmaco, come se quelli che le avevano iniettato non fossero stati sufficienti, e stare quattro ore seduta su un divanetto ad aspettare che passasse il tempo, senza fare nulla. Oppure poteva andare al bar dell’ospedale a mangiare e bere, visto che le medicine le facevano venire una grande fame. Ma solo se c’eravamo noi ad accompagnarla. È accaduto proprio un anno fa, eravamo a Natale: due giorni però ce li avrebbero condonati. Due giorni in cui non bisognava presentarsi, Natale e Santo Stefano, come fanno con i detenuti in libertà vigilata.

-È stato lì che ci siamo arrabbiati, mio marito e io, tornati a casa abbiamo cominciato a telefonare a tutti i medici dell’ospedale. C’era una psichiatra all’ospedale, una vecchia signora comprensiva, pronta ad andare in pensione. Era a lei che telefonavo tutti i giorni, era a lei che chiedevo di intercedere presso l’altra, la più giovane, al CPS, perché non ci costringesse per quasi un mese a una vita simile. E che senso avrebbe avuto, poi? La psichiatra giovane voleva cercare di farlo passare come una sorta di contenimento affettuoso. Sì, avanti e indietro con noi in macchina, perché stordita com’era per tutta la chimica che aveva in corpo, mia figlia non avrebbe certo potuto salire su un autobus. E poi? E poi niente, un’intera famiglia requisita per cosa? Per stare seduta sul divanetto, appunto. Ma chi le ha fatte le leggi, ci siamo chiesti. Un matto? Ma un matto vero, intendo. Com’è possibile che una giovane dottoressa che quasi non la conosce, mia figlia, possa decidere al posto della dottoressa che l’ha ricoverata? Perché sia chiaro, anche se le aveva iniettato tutta quella roba, sembrava che persino lei, la più vecchia, considerasse assurdo quel day hospital senza senso. Senza un progetto, senza qualcosa da fare che non fosse dormire e mangiare.

-Pare che i medici del CPS abbiano più potere di quelli dell’ospedale. Ma le sembra possibile?

-Alla fine l’abbiamo spuntata: siamo rimasti a casa, a letto. Chissà forse era Natale e a Natale sono tutti più buoni.

-O forse la dottoressa più vecchia ha saputo intercedere. Un po’ come la Madonna, quando la prego. Credo che sia stato allora che ho cominciato a dire il rosario. Bisogna sempre credere a una forza che alla fine ci aiuta. Che la forza sia con noi, sì, proprio come dicono nel film.

-Così siamo rimasti a casa a smaltire mesi di sonno e di effetti collaterali. Dico noi, perché in casa tutti soffrivamo insieme a lei. Non so se i medici che a volte trattano i genitori con quell’aria da padreterni lo sappiano quanto soffrono le famiglie. Ci pensano mai a cosa accadrebbe se fossero loro ad avere figli che scambiano le guerre terrestri con le guerre stellari?

-Ora non voglio descrivere tutti i sintomi che provocano le dosi massicce di farmaci, solo alcuni, raffreddore costante, mancanza di fiato, tristezza infinita, desiderio di morire. Incapacità a fare qualsiasi cosa che duri più di cinque minuti.

-Portami nella clinica svizzera, dove fanno l’eutanasia, mi diceva mia figlia. E intanto passavano i mesi e ogni mese chiedevamo al CPS che la dose dell’iniezione fosse più bassa, non si poteva interrompere di colpo, passare alle pillole o alla polverina che prende ora, bisognava ridurre piano.

-Ci siamo di nuovo arrabbiati, all’inizio sembrava che nessuno ci ascoltasse. Mio marito ha urlato forte, ho temuto che ricoverassero anche lui. Alla fine hanno deciso di darci un sostegno. Ogni mese andiamo anche noi, lui e io, al CPS a parlare con uno psichiatra e una psicologa come due matti. E la psicologa ogni volta mi ripete che le medicine non sono formule magiche.

-D’accordo non lo sono, lo so anch’io che non lo sono, anche se dico il rosario e so che dire il rosario è come ripetere i mantra. E anche i mantra sono una specie di formula magica. Sono il veicolo del pensiero. Un veicolo sacro che libera la mente. Sì, le preghiere sono mantra, formule magiche che aprono le porte verso l’ignoto, permettono di accogliere il futuro senza paura.

-Oggi tutti recitano i mantra, chi diventa buddista, chi va a Yoga magari solo una volta alla settimana, senza sapere che Yoga significa unione con Dio e pensa che sia solo una ginnastica per allontanare lo stress, e intanto però ripete i mantra senza neppure immaginare che ripetere i mantra è come dire il rosario.

-Sì, le medicine, se vuoi che ti guariscano devi chiamarle formule magiche, altrimenti corri il rischio di considerarle solo veleno. In ogni cosa ci sono sia un diavolo, sia un angelo. Anche dentro di noi, bisogna scegliere.

-E anche lei, la psicologa, che voleva stare tanto con i piedi per terra, a differenza di noi che parlavamo solo di guerre stellari, non lo sapeva che, dopo tutti quei mesi di torpore e dolore, era difficile, una volta finito il rito delle iniezioni, prendere ogni giorno la dose di mantenimento, una polverina che restava anche un po’ attaccata al bicchiere, ma che faceva il suo effetto?

-Che la forza sia con te e sia con me, noi siamo tutt’uno con la forza, dicevamo insieme, mia figlia e io. Era la nostra formula magica, una formula magica omeopatica, si guariva da Star Wars parlando di Star Wars.

(3 –  continua)

vedi tutti

Write A Comment