Le “Strutture residenziali” sono presenti in tutte le Regioni. In alcune, poche, si conta di 1 posto letto ogni 10.000 abitanti in altre si arriva fino a 5 volte tanto. Quasi ovunque si consumano più della metà ( fino ai ¾) delle risorse regionali per la salute mentale. La tendenza a ricorrere al “posto letto residenziale” sembra in crescita inarrestabile e riduce irrimediabilmente la consistenza e la capacità di intervento dei servizi territoriali.
Occorre dunque ripensare alla presenza della cooperazione sociale, costretta ad appiattirsi su infelici politiche regionali. Rischia di diventare dominante la diffusione di luoghi che assomigliano a cronicari. Le ingenti risorse, passivamente dedicate alla “residenzialità”, sarebbero sufficienti per ripensare a forme diverse dell’abitare, dell’inserimento lavorativo, del vivere sociale. I progetti riabilitativi individuali, dove attivati, producono risultati tanto evidenti quanto inaspettati.
Gli aggettivi che coprono il fallimento delle pratiche residenziali e qualificano questi luoghi come rassicuranti e necessari, evocano la certezza della cura e dell’accoglienza: “terapeutiche, riabilitative, residenziali, familiari, sociali, comunitarie”.
Da molto tempo, ormai, è evidente che il guasto maggiore nell’assetto dei servizi di salute mentale è divenuto il ricorso illimitato, confuso e costosissimo a queste strutture. La conseguenza ancora peggiore è la delega totale della gestione, della cura, delle risorse al privato, sociale o mercantile che sia.
Le strutture residenziali hanno avuto in questi ultimi anni, in particolare dopo il 1998, a seguito della definitiva chiusura degli ospedali psichiatrici, una notevole crescita numerica: dalla ricerca Progres residenze (Iss, 2001), i posti-residenza nelle Regioni risultavano essere circa 17.000. Da allora l’espansione si è rivelata inarrestabile.
Il numero, anche se non verificato, è comunque rilevantissimo. Oltre 20.000 persone (forse 30.000) che, a vario titolo, sono ospitate in strutture residenziali.
I tempi di permanenza, meglio si direbbe di ricovero se non di internamento, diventano sempre più consistenti. Vi sono persone, e non sono poche, che in queste strutture rimangono inerti da più di 30 anni. In quasi tutte le Regioni questa scelta, la scelta della residenza comunitaria, che originariamente è stata perfino affascinante per molti giovani operatori, attratti dalla suggestione della “comunità”, dell’accoglienza, della convivenza, è diventata un affare di dimensioni spesso mal gestibili proprio dagli stessi Dipartimenti e dalle amministrazioni che le hanno fatto nascere. Un numero rilevante di operatori – accompagnatori, tecnici, psicologi, psichiatri, infermieri – è impegnato in questo esteso arcipelago. E, come isole lontane, queste strutture hanno perduto il contatto con la terra ferma, col servizio pubblico, col DSM, con una qualsivoglia razionale attenzione a un progetto articolato e condiviso.
Alcune strutture residenziali appaiono sovradimensionate nel numero, lontane dalla quotidianità dei paesi e dei quartieri, anonime, prive di oggetti, regolate ancora da logiche manicomiali. Spesso separate dal Centro di salute mentale, con équipe del tutto distinte e con profili professionali inadeguati, operano in una totale e indiscussa autoreferenzialità. Sono luoghi che non possono, per come sono costituite, dare sbocco alcuno a forme di abitare e di convivenza più autonome e meglio integrate nella comunità.
In conseguenza dell’espansione residenziale sanitaria e delle scarse possibilità di dimissione dei pazienti accolti, le ASL finiscono per attuare deroghe di fatto alle normative nazionali e regionali sui tempi di ricovero, sulle dotazioni strutturali e di personale; anche i controlli in questo ambito sono, in alcuni casi, divenuti superficiali o addirittura inesistenti.
Molte strutture rischiano di diventare contenitori di emarginazione sociale della disabilità psichica, contrariamente alle finalità dichiarate, con conseguenti fenomeni di “wandering” istituzionale tra luoghi di ricovero.
L’offerta di ricoveri in cliniche private convenzionate con il Servizio sanitario nazionale, in alcune regioni al limite della scandalo, accessibili anche senza coordinamento da parte dei CSM, completano il quadro della residenzialità e rappresentano l’espansione di modelli di assistenza ospedaliera al di fuori della cultura territoriale dei progetti “obiettivo” e dei “piani” per la salute mentale “post legge 180″.