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Per una psichiatria gentile

di Emanuela Nava [1]

Il treno aveva rallentato, dal finestrino si vedevano scorrere luci di strade, macchine, case. Eravamo all’inizio di dicembre, splendevano anche alcuni alberi di Natale.

La signora afferrò la sciarpa e la avvolse attorno al collo.

-Per me è Natale ogni volta che nasce un bambino.- disse all’improvviso. – È Natale anche ogni volta che una persona rinasce. L’ho detto alla psicologa, quando, finalmente, dopo i mesi di torpore che le avevano procurato i farmaci, mia figlia è rinata e doveva solo prendere una polverina che faceva sciogliere nell’acqua. Era solo un modo per rendere tutto un po’ più lieve, chiamarla formula magica. Ma cosa ne sa la psicologa di formule magiche? Ha mai recitato il rosario? Non è una formula magica anche quella?

Aveva parlato così in fretta, accomodandosi a ogni parola la sciarpa attorno al collo, quasi volesse ricordare a se stessa che aveva un nodo alla gola, che non potei fare a meno di risponderle:

-L’immaginazione nasce dal cuore! E le immagini possono essere molto potenti!

-Sì, ha ragione. Ma che immagini vuole che nascano quando vai in ospedale e per prima cosa ti tolgono le stringhe delle scarpe, i cordini delle felpe, ti proibiscono persino lo shampoo? E poi ti chiudono a chiave in un reparto come in un carcere.

Mi guardò in silenzio, fissandomi a lungo, quasi volesse studiare la mia reazione.

-Le stringhe delle scarpe?- domandai dopo qualche istante.

-Sì, è così che funziona in tutti gli ospedali, in tutti i reparti psichiatrici. Mia figlia stava male, confondeva Star Wars con le guerre vere che trasmettono ogni giorno i telegiornali e i medici come prima cosa le hanno tolto le stringhe delle scarpe. Anche la sciarpa di seta che le piaceva tanto. Poi l’hanno chiusa a chiave dentro il reparto. Gli psichiatri hanno cercato di spiegarci che lo facevano per il suo bene, ma intanto era come se le dessero la patente di persona pericolosa per sé e per gli altri. Come se con quelle stringhe stessero dicendo che lei poteva strozzare qualcuno.

La signora parlava a una tale velocità, mangiandosi le parole, schiarendosi la voce, che fui sopraffatta da un senso di angoscia profonda.

-A Trieste, e in alcuni altri ospedali, non accade.- riuscii solo a dire.

-A Trieste? E come lo sa? Succede in tutti gli ospedali d’Italia. Me l’hanno detto, mi sono informata.

-Ma a Trieste…- provai a ripetere.

Lei mi zittì.

-A Trieste? Magari, e chi glielo ha detto, qualche medico che glielo voleva far  credere? Conosco anch’io la storia della legge Basaglia, sono abbastanza vecchia per ricordami qualcosa, ma quando ne ho parlato con lo psichiatra del CPS che ha in cura mia figlia avrebbe dovuto vedere la sua faccia. Trieste? Ma lasciamo perdere, mi ha detto.

La signora sorrise. All’improvviso sorrise ancora, indicando il mio libro.

-Mi scusi, l’ho disturbata, lei voleva leggere le fiabe e io sono qui a raccontarle una storia vera.

-Ma no!- mi schermii. – Continui pure, mi fa piacere parlare con lei.

-Grazie, allora, lei è molto gentile, spero di non disturbarla troppo, ho passato una giornata a parlare solo con la Madonna, inginocchiata davanti a lei. Una Ave Maria dietro l’altra. Sono sicura che la psicologa del CPS, se mi avesse visto, avrebbe preso per matta anche me.

-Spesso psicologi e psichiatri sono più matti dei loro pazienti!- esclamai.

Mi ero augurata che la battuta la facesse sorridere di nuovo, invece la signora divenne ancora più seria.

Eravamo giunti alla stazione di Mestre. Stavano salendo altri passeggeri. Il vagone si riempì quasi completamente, ma, come per miracolo, i due posti accanto a noi restarono vuoti. Restarono vuoti per il controllore, per chi passava con il carrello delle bibite, per la signora, ma non per me, che all’improvviso vidi Franco Basaglia. Accanto a noi, divertendosi a cambiare di posto, mi immaginai che lui fosse comparso sul treno. In silenzio e facendomi continui cenni con gli occhi, Franco Basaglia mi incoraggiava ad ascoltare tutta la storia della signora.

-Mi racconti, signora, mi racconti dall’inizio se lo desidera.- dissi allora. -Sono felice di ascoltarla.

-Grazie!- esclamò.

Poi la signora iniziò a raccontare. Un racconto lungo che io non interruppi mai.

-Era da un po’ che mia figlia stava male, tutto era iniziato in quarta liceo, un amore finito quasi subito, giornate intere trascorse a chiedersi dove lei avesse sbagliato, quali frasi avesse pronunciato per farlo scappare, quel bel ragazzo gentile che l’aveva lasciata

quasi subito, neppure il tempo di conoscersi. Tutte cose normali per noi che siamo vecchie e nella vita abbiamo visto fuggire tanti bei Narcisi, che prima ci hanno corteggiato e poi se la sono date a gambe, quando hanno visto che cedevamo, che saremmo diventate appiccicose. Io lo so che anche noi abbiamo perso la testa tante volte, ma so anche che poi l’abbiamo ritrovata, l’abbiamo riavvitata con più forza sul collo.

-Insomma ce ne siamo fatte una ragione. Invece lei no, non faceva che piangere e siccome lui era uno dei suoi compagni di classe ha smesso di andare a scuola.

-Piangeva tutto il giorno, mia figlia, ripensava a ogni parola che lui aveva pronunciato, poi si guardava allo specchio e si trovava ogni difetto possibile: naso, occhi, bocca. Gambe troppo grosse e troppo corte. Alla fine ha detto che puzzava, che era per questo che lui l’aveva lasciata. L’aveva baciata una volta sola ed era fuggito disgustato.

-Così, invece di andare a scuola, ogni mattina si faceva un lungo bagno che durava ore, e anche al pomeriggio continuava a lavarsi le mani e la bocca mille volte. Non voleva andare a scuola e neppure uscire di casa. Puzzava troppo, diceva.

-Le tralascio tutti gli altri particolari, la sofferenza sua e anche la nostra, quella di mio marito e dell’altra mia figlia, che cercava in tutti i modi di parlarle e di farle coraggio. Ha solo due anni in più della piccola, la mia figlia maggiore, ma sembra già così matura.

Per aiutarla, le raccontava anche dei suoi amori infelici, tutti soffrono per amore, le ripeteva.

-Poi le cose sono precipitate. Mia figlia ha detto che erano stati i marziani che una notte erano entrati nella sua camera e l’avevano riprogrammata, ne aveva parlato anche una trasmissione televisiva, Focus mi pare, di quello che fanno gli extratrerestri quando prendono di mira un abitante del nostro pianeta. Entrano nelle case sempre di notte, si impossessano dei pensieri di qualcuno, lo resettano, fanno esperimenti di ogni tipo.

-A mia figlia avevano inserito una ghiandola che la faceva puzzare. E nello stesso tempo però l’avevano messa in contatto con altri mondi, con altre galassie. C’erano le guerre nel cielo, le Star Wars. E ogni volta che in tv scorrevano le immagini delle guerre vere, quelle dell’Africa o del Medio Oriente, mia figlia diceva che erano guerre stellari, che al telegiornale non dicevano la verità. Che lei, con la puzza, aveva ricevuto in regalo anche una grande conoscenza interplanetaria. Solo se le guerre fossero finite, lei avrebbe riavuto il suo buon odore di quando era bambina. Ma tutte quelle cose andavano rivelate, bisognava farle conoscere al mondo, occorreva scriverle. – Alla fine è stata ricoverata.

(2 – continua)

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[1] Emanuela Nava è nata a Milano, dove vive e lavora. Scrive libri per bambini e ragazzi. È stata sceneggiatrice tv. Ha lavorato per cinque anni nell’Equipe dell’Albero Azzurro, il programma tv della Rai per i più piccoli.

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