Centri di salute mentale (Csm), presenti mediamente in numero adeguato in tutto il territorio nazionale (1 ogni 80-100mila abitanti) non sono equamente distribuiti. In alcune Regioni, per via delle razionalizzazioni e degli accorpamenti, vanno ulteriormente riducendosi di numero, insistendo su aree estese e popolazioni sempre più numerose. Sono aperti per fasce orarie ridotte. Ad eccezione di alcune realtà regionali, i Csm sono aperti per 8- 12 ore al giorno per 5 giorni alla settimana. Gli interventi di gestione della crisi, di presa in carico individuale, di sostegno alle famiglie e all’abitare, di integrazione sociale, finiscono per essere insufficienti o del tutto assenti. Frequente è la riduzione alle sole visite ambulatoriali (con il ricorso a sterminate liste di attesa) per prevalenti prescrizioni farmacologiche.L’effetto di scarico sulle altre stazioni del sistema sanitario territoriale e ospedaliero sono facilmente intuibili. La risposta all’emergenza e alla crisi e al bisogno di percorsi riabilitativi diventano frammentari e incerti provocando una domanda mai esauribile di posti letti nei servizi psichiatrici ospedalieri, nelle case di cura private, nelle strutture residenziali.
“Come conseguenza” – annota la Commissione parlamentare d’inchiesta – “le tipologie delle prestazioni risultano poco o per nulla declinate sulle necessità della persona, a partire dalla disponibilità all’ascolto, mancano il sostegno integrato con il sociale presso il domicilio, la risposta all’emergenza e alla crisi nelle 24h, la mediazione familiare in situazione di allarme”. L’esiguità di tali opportunità di intervento, personalizzato e domiciliare, risulta essere tanto più rilevante se a scapito delle famiglie più bisognose per problemi psicopatologici gravi e complessi.
Il ricorso frequente e reiterato al Trattamento sanitario obbligatorio (Tso) è sintomo di carenza di offerta e di incapacità di intercettare il disagio mentale sul nascere, di assenza di azioni di tipo preventivo dell’acuzie.
Considerazioni analoghe vanno svolte nel costatare le difficoltà dei Csm di occuparsi della salute mentale della popolazione detenuta, considerato anche i nuovi contesti e le nuove domande derivanti dalla totale e definitiva chiusura degli Opg.
Il Servizio psichiatrico di diagnosi e cura (Spdc) rappresenta, drammaticamente, l’unico servizio all’interno del territorio che risponde nell’arco delle 24 ore. Il suo buon funzionamento è strettamente dipendente dalla coerente organizzazione dipartimentale e da un investimento rilevante sul Centro di salute mentale ben radicato nella comunità. La fragilità del servizio territoriale, e spesso la totale mancanza di coordinamento e di comunicazione producono sovraffollamento, pratiche di contenzione, porte chiuse. È questo il luogo del Trattamento sanitario volontario (Tsv) e del Trattamento sanitario obbligatorio (Tso), che divengono in sostanza risposte totalizzanti offerte in servizi che finiscono per essere non più comunicanti con la rete dei servizi, anche se fragile.
Gli Spdc rimangono per la maggior parte (8 su 10) luoghi chiusi non solo per i ricoverati, ma anche, dall’esterno all’interno, per le associazioni di familiari e utenti, per il volontariato formalizzato e informale, a scapito di un “sapere esperienziale” prezioso che viene perduto. E’ largamente diffusa la pratica della contenzione meccanica. Il trattamento è ovunque prevalentemente farmacologico. In ragione del pregiudizio della pericolosità, spesso le porte sono blindate, appaiono i video citofoni, le telecamere chiamate a proteggere una preoccupante inaccessibilità e a produrre un forte impatto stigmatizzante. Le salette per i visitatori impediscono, il più delle volte, di entrare materialmente nelle stanze dei ricoverati. La qualità della vita delle persone in trattamento è spesso misera e in nome della sicurezza è fatto divieto ai pazienti di possedere gli effetti personali usati comunemente nella vita quotidiana.
Il Trattamento sanitario obbligatorio (Tso), ovvero la sua regolamentazione, nucleo sensibile – ma certo non dominante – della legge di riforma del 1978 rappresenta il punto di massimo equilibrio tra il bisogno di cura oggettivamente riconosciuto e la mancanza di consenso, fino al limite estremo del rifiuto ostinato; nella pratica assume, all’atto della sua applicazione, distorsioni e disattenzioni tali da renderlo strumento di repressione e di mortificazione.
Le modalità di esecuzione del Tso sono variegate, passando da una Regione all’altra e talvolta anche nell’ambito della stessa Regione. Differenze, queste, che espongono i cittadini a cattive pratiche e a lesioni dei loro diritti fondamentali, solo in ragione della loro appartenenza territoriale. Anche nelle statistiche il ricorso a questa pratica trova differenze molto significative (da un tasso di 6/100.000 per anno in alcune regioni a 30/100.000 in altre) mostrando ancora di più, e drammaticamente, le differenze delle politiche territoriali.
(continua)