Di Peppe Dell’Acqua
Ho conosciuto Franco Basaglia che Gorizia era già finita; lavorava da qualche anno a Colorno ed era nell’aria “il principio dell’avventura triestina”.
Era la primavera del 1971. L’occasione fu l’incontro Cus Parma-Cus Napoli. Siamo andati a trovarlo a Colorno, io e alcuni compagni, tutti laureandi in medicina, interni all’Istituto di Malattie Nervose e Mentali e giocatori della squadra di rugby dell’Università. A Napoli, negli anni caldi, avevamo letto L’istituzione negata.
Stavamo già ereditando dal sessantotto interrogativi e problemi sulla professione che ci apprestavamo a intraprendere: il rapporto tra la nostra professione e gli apparati del potere e del consenso, il ruolo del medico ad essi subalterno, l’inevitabile dissociazione tra professione e impegno sociale e politico.
Era per tutti noi, la prima volta che entravamo in un manicomio e non nascondo il senso di disgusto, di nausea, di panico che quel primo impatto mi provocò. Franco Basaglia ci accolse con familiarità, ci mise a nostro agio, ci parlava dandoci del tu. Oggi può sembrare strano, ma in clinica le gerarchie erano rispettate e noi studenti eravamo sempre all’ultimo posto della coda che si formava dietro al direttore, il quale mai si rivolgeva a noi direttamente. Partecipammo perfino a una riunione con gli operatori dell’Ospedale. C’erano problemi, tensioni, e tutti discutevano con calore, non risparmiando toni duri e polemiche. Tutto alla luce del sole. Il contrasto con la nostra esperienza in clinica era stridente, quasi ci disorientava, ma eravamo già conquistati ormai, affascinati.
Franco Basaglia ci disse che sarebbe andato a lavorare a Trieste e che cercava medici giovani. Avrebbe fatto di tutto per formare un gruppo di giovani psichiatri. Più semplice – diceva – formare nuovi psichiatri in una pratica nuova, piuttosto che tentare di cambiare testa e cultura a psichiatri vecchi e già formati. E il rapporto con noi fu affettuoso, attento, duro.
Appena arrivati a Trieste, nel novembre del 1971 ci inviò subito “al fronte”, nei reparti, con le nostre insicurezze, a contatto immediato con i problemi: la responsabilità, la gestione del reparto, l’assemblea, i rapporti con le gerarchie degli infermieri.
Passavamo giornate intere nei padiglioni di San Giovanni. A sera, in riunioni quotidiane difficili e spesso frustranti, affrontavamo i problemi della giornata, i nuovi programmi terapeutici, le storie degli internati che emergevano.
Di fronte all’impasse, ai vicoli ciechi in cui ci cacciavamo, Franco Basaglia riusciva sempre a spostare i termini del problema, a farci guardare da un altro punto di vista, a capovolgere le situazioni.
Riuscì a spostare, a capovolgere, anche la nostra vita. Eravamo avviati a una vita professionale frustrante e dissociata: da un lato la professione medica, con i suoi rituali, le sue geometriche distanze dalla realtà, dalla concretezza dei problemi; dall’altro l’impegno politico, quello che restava degli anni caldi dell’Università. Quanti di noi si sono persi drammaticamente nel carrierismo esasperato o al contrario in scelte politiche rigide e senza sbocco.
Con Basaglia, senza accorgercene, abbiamo trovato la nostra strada, senza separazioni, senza dissociazioni: è la “lunga marcia attraverso le istituzioni” che ci ha indicato con il lavoro quotidiano, instancabile. Accettare la sfida del lavoro istituzionale: trasformare, creare nuovi spazi per agire, determinare momenti di vita e di creatività.
Una sera di ottobre del 1979, a Trieste. Il manicomio era ormai stato chiuso, si lavorava fuori, nella città. C’era stata la legge 180. Tutto il gruppo di lavoro era riunito nella direzione dei servizi, dove Franco anche abitava, per fare festa.
Franco, ormai era deciso, sarebbe partito per Roma. Eravamo in tanti a salutarlo. Lo prendevamo in giro, sottolineando ridendo i suoi tic, le sue debolezze, i suoi modi a volte “infantili” di arrabbiarsi, le sue ossessioni, il quadernino per i numeri di telefono (aveva innumerevoli agendine che spesso perdeva), la sua passione per i problemi del Sud America (era appena stato in Brasile e doveva tornarci). Coprivamo con ilarità e allegria il malcelato disappunto e la malinconia che già si faceva strada in ognuno. Non volevamo ci lasciasse, eravamo orgogliosi e fieri di essere stati con lui in momenti così determinanti, con lui che ora partiva per Roma accettando una scommessa più grande, forse decisiva.
Franco rideva come non mai, nel vedere scoperte e rappresentate da noi le sue umane debolezze.
Ognuno di noi ha conservato le foto di quella sera di festa, dove tutti, e Franco con noi, erano allegri, si toccavano, si abbracciavano.
Non avevamo avuto bisogno di parole formali quella sera, l’ultima sera, per salutarlo.
Gli interrogativi, le idee e le pratiche che accompagnarono l’ingresso di Franco Basaglia, nell’ospedale psichiatrico di Gorizia avviarono, a partire dai primi anni ’60, una stagione di straordinari e impensabili mutamenti. Era il 1968 quando il governo di centro sinistra, sulla spinta dell’esperienza goriziana, varò una legge che omologava il manicomio all’ospedale civile e avviava un processo di radicale cambiamento, che si concluderà dieci anni dopo con la Legge 180. Le trasformazioni istituzionali, etiche, culturali, erano conseguite a scelte di campo rigorose e da pratiche concrete: le porte aperte, la parola restituita, l’ingresso dei matti nel mondo reale, animarono la paziente “lunga marcia” attraverso le istituzioni che quell’apertura aveva tumultuosamente avviato.
Basaglia quando entra per la prima volta nel manicomio di Gorizia è colpito soprattutto dall’assenza dell’altro.
Gli internati sono 400. Le persone, i soggetti, le relazioni non ci sono più. Un deserto: oggetti, assenze, negazioni.
Di fronte a questa violenza, a questo indicibile orrore è costretto a chiedersi angosciato «che cos’è la psichiatria?».
Da qui l’urgenza della critica ai fondamenti sedicenti “scientifici” della psichiatria stessa, l’irreparabile rottura del modello manicomiale. Dopo quasi duecento anni, per la prima volta dalla sua nascita, le culture e le pratiche del manicomio, vengono toccate alle radici. È un capovolgimento ormai irreversibile: “il malato e non la malattia”.
La legge 180, che presto compirà 40 anni, arriverà nel 1978, non è altro che questo: la fine di una legislazione speciale. L’internato, il malato di mente è un cittadino cui lo stato deve garantire, e rendere esigibile, i suoi fondamentali diritti costituzionali, una persona la cui dignità deve assumere un valore assoluto, un soggetto singolare che pretende ascolto, cure, attenzioni altrettanto singolari. Da qui il cammino incerto irto di interrogazioni, di rischio, di lentezze insopportabili. Il rifiuto delle intoccabili certezze della psichiatria pretende la cura di un pensare critico, vigile, partigiano. Da qui il cammino aspro e i conflitti che ancora oggi dobbiamo affrontare e che mai ci abbandoneranno. E le entusiasmanti scoperte che le persone con l’esperienza del disturbo mentale continuano a fare. Con stupore.