Scriverti una lettera. Te la dovevo questa lettera. Ci ho pensato in tutti questi anni, in giro per città
sconosciute. Scrivevo poesie, appunti, aforismi. Tutti, forse, facevano parte della lettera che dovevo inviarti.
Sul boulevard Jourdan, vicino ad uno degli ingressi della Cité Universitaire, c’è un café che molti anni fa ero solita frequentare.
Ieri ci sono arrivata, passeggiando di primo mattino, a quel piccolo café di una volta. L’ho trovato, non era cambiato in nulla: gli stessi volti giovanili, gli sguardi lucidi di studenti che lì leggono, fumano, parlano fino all’ora di chiusura.
Ho subito notato che ora si vestono in maniera diversa; la musica che ascoltano è anch’essa differente, alla moda di oggi. Ma al piano superiore del locale, in quella che chiamano “Sezione Nostalgia”, si possono ascoltare le canzoni dei miei anni verdi, come Pétite Fleur, e tutte le altre di Boris Vian, Léo Ferré..-
Ho pensato: de la musique avant toute chose. E mi sei venuto in mente tu. Ho cominciato a prendere appunti china sul mio tavolino, e tu eri lì davanti a me, silenzioso, sentivo il tuo sguardo sui miei capelli, vedevo… ricordavo i tuoi occhi e il tuo sguardo attento, ironico.
Forse, adesso, ero pronta a scriverti quella famosa lettera.
Quella notte, senza dirti niente, sono partita usando quel biglietto ‘aperto’ che mi avevi consegnato un po’ di tempo prima della mia partenza per Napoli. Del mio ritorno senza commiato.
Adesso, dopo tanto tempo, sono qui, provo a riempire con parole scritte il vuoto che ci divide.
Certo, ti devo una spiegazione, o almeno cercare di dirti perché quella notte mi fossi allontanata da te, senza dir nulla.
Avevo fatto un sogno tetro, una bambina recitava una cantilena… no, era una preghiera: “Angelo di Dio, che sei il mio custode, proteggimi e custodiscimi…”.
La bambina, ad un tratto, si era guardata allo specchio nell’anta dell’armadio: era una piccolo angelo custode alle spalle di una donna inginocchiata, aveva le ali aperte e forse la proteggeva- Il volto era di una bambina con gli occhi scuri e le treccine nere. Ma il viso era di una vecchia e le ali erano prive di piume.
Presi il telefono, dovevo chiamare mia figlia! E alle prime luci dell’alba, con in mano il mio biglietto ‘aperto’, ero già in aeroporto.
Non ti avevo detto nulla, né del sogno, né della mia bambina, tu mi avevi promesso un’altra vita, tutti i miei sogni si sarebbero realizzati grazie a te.
Ma sull’aereo capii che non sarei tornata da te, sarei tornata a casa e con il mio infelice angelo nero sarei andata a Parigi, in quel piccolo appartamento di rue du Bac, che avevamo condiviso fin dal nostro primo incontro.
Davanti a me avevo un’altra vita, d’ora in poi sarebbe stata piena di cure e di attenzioni verso colei che amavo più di me stessa. Avrei viaggiato solo con lei, mia figlia, la mia vita.
Eccola la lettera che non ho più scritta, poi. Sono passati tanti anni. Ora ho raccolto tutti i frammenti di pensieri, poesie, parole e li ho messi insieme riempiendo gli spazi vuoti e, alla fine, ti avrò detto tutto. Il vuoto è stato colmato e non resterà che spedirla.
Ero stata chiamata dal padre, a casa sua viveva in quei giorni mia figlia. Allarmato e incapace di parlare con lei, che piangeva, era spaventata: occhi segreti la seguivano nella mente per scoprirne i più profondi segreti. Chissà come, chissà da dove, e questo mistero l’aveva costretta a togliere i parati dai muri, smontare mobili, per trovare dove fossero stati nascosti gli strumenti dello spionaggio. Il giorno prima, padre e figlia rincasando, era avvenuto un episodio sconcertante che aveva sconvolto il padre inducendolo ad affrettarsi a chiamarmi: lei si era accostata spalle al muro spaventata, e poi aggredendo alcuni passanti che lei urlava la controllassero, aveva litigato con il padre che tentava di farle riprendere il cammino verso casa.
Arrivai a Napoli il giorno dopo: era il 2 settembre, il giorno del compleanno di mia figlia, che compiva 24 anni. Brava studentessa universitaria, aveva interrotto di studiare da un paio d’anni. La portai con me, nella casa da mesi disabitata al centro di Napoli.
Parlammo, quella sera.
“Penso che le persone, anche quelle che sono nei film e alla televisione, facciano di tutto per conoscere i miei pensieri e controllarmi. Anche le mie amiche. Anche tu, papà e mio fratello”, esordì alla mia domanda su quel che era successo il giorno prima.
“E questo succede anche quando sei fuori?”
“Sì, quando qualche volta prendo la metropolitana tutta la gente mi urta apposta, mi osserva per scoprire i miei pensieri”.
“E tu reagisci sempre come ieri?”
“No, non sempre, ma sono costretta a indagare sempre per scoprire ch8i mi controlla e cn quali mezzi, che possono essere la televisione, oppure qualche strumento nascosto nella mia stanza. Vogliono tutti sapere i fatti miei e allora sono diventata Sherlock Holmes per fare le mie indagini”.
“Riesci a dormire bene?”
“No, no, no, dormo proprio male. C’è sempre un uomo grosso ma invisibile nella mia stanza, chi mi sta addosso e allora mi sveglio sempre molto stanca”.
“Hai scoperto qualcosa nelle tue indagini?”
“Macché! Magari, mamma, ma perché mi osservano e mi offendono? Che cosa ho atto?”
Non seppi rispondere se non con un accorato e banale “vedrai che tutto passerà presto”.
L’affidammo ad uno psicanalista; riuscii a farle riprendere gli studi e la portai pian piano anche alla laurea. Ma il suo “nocciolo duro” del controllo degli altri, dello spionaggio dei suoi pensieri non si è mai riusciti ad entrarvi, a sgretolarlo. Davanti a me, una bambina impaurita, che nella depressione e soprattutto nella solitudine aveva, per sé, pensieri terribili.
Mi sentivo, ero già vecchia, e il futuro per lei, dopo di me, non potevo pensarlo altrimenti che come groviglio di sofferenza. Incredula dapprima, con la speranza poi di una guarigione o di un miglioramento, consapevole infine della irreversibilità.
Da allora cominciò la mia ricerca, scrissi dovunque, ad associazioni, al Centro di salute mentale di Firenze. Andai dovunque mi sembrava potesse esserci uno spiraglio, un luogo dove trasferirmi con mia figlia dove si sarebbero presi cura di lei, come persona sofferente, non come malata. Poi ebbi l’idea di scrivere la mia storia sui giornali e scrissi, con coraggio, a Galimberti, alla sua rubrica di lettere sul supplemento della “Repubblica”. Venne pubblicata per intero, e Galimberti che di solito faceva un commento ampio, fece solo una breve annotazione, scrivendo tra l’altro “Non lo faccio mai, ma questa volta ho ritenuto opportuno lasciare a lei tutta la pagina perché il suo racconto di dolore e di amore, che si acuisce quando la vita di chi cura si fa più incerta della vita di chi è curato, penso descriva una situazione molto più diffusa di quanto si supponga”.
La mia lettera si concludeva così: “Ma c’è posto per questi angeli nel mondo? Un sogno: qualcuno ci verrà a prendere con gioia, con tenerezza, e ci porterà non so dove, ma in un posto dove potrà stare tranquilla. Everywhere, but not in this world”.
Non me l’aspettavo, ma molti mi risposero, furono solidali con me, mi consigliarono. Anche, all’epoca dei governi della sinistra a Napoli e nella regione, l’Assessorato regionale per le politiche sociali, con cui sembrava si potesse pensare ad un progetto sostenuto e coordinato con l’Asl. Ma chi mi aprì alla speranza fu Clara Sereni, che, dalla propria esperienza personale con il figlio, aveva creato una fondazione e soprattutto un progetto, “Prisma” che prevedeva, con il sostegno di un’equipe del Centro di salute mentale e delle istituzioni locale, un superamento dei “piccoli manicomi” delle case di residenza, e metteva al centro del progetto non solo la cura della malattia, ma prima di tutto un progetto di vita: una casa da condividere con studenti o lavoratori, dove la mia piccola infelice avrebbe potuto organizzare la sua vita futura. Andai a Perugia, conobbi Clara, ed ero pronta a trasferirmi. Mi mi si anche a ricerca di una casa. Ma le cose cambiarono: Clara fu costretta ad abbandonare la fondazione e tutto ritorno ad essere incerto e precario. Forse a Terni, dove oggi vivo e dove un collaboratore di Clara ha riproposto un progetto analogo, potrei realizzare il futuro del mio angelo addolorato.
Che cosa succederà? Non lo so. E continuo ancora a cercare, fino a quando potrò. Pronta ad andare dovunque (Bolzano? Trento?) dove pare si lavori in questa direzione. A Trieste sono già andata altre volte.
Ci tornerò.
Continuano le mie migrazioni con poca speranza. Ma nessun aiuto reale.
Al Congresso di Trieste porterò un progetto.