Una riforma che parla ad altri mondi. La legge Basaglia data ormai quasi 40 anni. Ogni tanto si parla di aggiornarla, modificarla. Quanto è ancora viva la lezione basagliana?
Basaglia è andato veramente alla radice delle questioni. I problemi in psichiatria sono stati presi alla radice e quella radice è stata estirpata. C’è stato un cambio netto di paradigma, di approccio. In questo senso la 180 è una riforma: non una rivoluzione, ma una riforma radicale. Una riforma che è andata talmente alla radice che continua a essere viva e vitale. Dal Giappone alla Cina continuiamo ad avere visitatori, gente curiosa che viene a chiedere come si fa, come è possibile, a quali condizioni.
Una cosa però dev’essere molto chiara: quando parliamo di trasformazione radicale della psichiatria – che in parte è avvenuta e in parte è ancora da avvenire – parliamo veramente di qualcosa che parla anche ad altri mondi. Perché le esclusioni riguardano tutte le istituzioni totali, non soltanto la psichiatria. Parliamo di come debbano essere cambiate la sanità, la giustizia, la scuola, di come si debba continuare la battaglia contro l’esclusione sociale, di come il nuovo contratto sociale debba essere ricostruito dentro rapporti non autoritari e dentro istituzioni aperte.
Proviamo a pensare: ma quale fabbrica oggi è aperta, quale scuola è veramente aperta, quale istituzione oggi è così trasparente da lasciarsi attraversare, da essere elemento di costruzione di democrazia? Guardiamoci attorno, osserviamo le istituzioni e ci accorgiamo subito di quanto lavoro si possa immaginare di fare da dentro le istituzioni, quali che siano.
Se si ha chiaro quest’orizzonte di senso, se si fa propria quest’assunzione di responsabilità della propria professione e di demistificazione continua di tutte le strutture che tendono a chiudere le istituzioni e a costruire i muri, si apre un campo immenso. Per questo la lezione basagliana è ancora attuale: non solo dentro la psichiatria, ma dentro la medicina, la giustizia, la scuola, il lavoro…
Riconnettere risorse dentro la città. Oggi lei individua una sfida per il mondo della cura: uscire dalle compartimentazioni, dalle gabbie disciplinari, dai muri corporativi, per dare vita a una nuova politica della salute nelle nostre città…
Sì, da un po’ di anni abbiamo iniziato a immaginare che i muri da abbattere fossero quelli della sanità più complessiva. I muri del rapporto tra ospedale e territorio, tra medici di medicina generale e medici specialisti, tra università, facoltà di medicina, ospedali, servizi territoriali. Recentemente in Friuli Venezia Giulia abbiamo varato una legge ambiziosa – speriamo di essere capaci di metterla in atto – incorporando la facoltà di medicina, l’azienda ospedaliera e le aziende territoriali in un unicum. Perché immaginiamo che soltanto così si possa ricostruire un percorso di continuità terapeutica e di presa in cura delle persone.
Ancora una volta si tratta di abbattere i muri valorizzando le risorse che ancora ci sono. Non più mantenendole all’interno di confini tribali, di divisioni tra i vari sottosistemi, ma provando a costruire un sistema molto più efficace che vada verso i bisogni e i diritti delle persone. Bisogni e diritti che oggi sono bisogni di singolarità, di essere resi protagonisti del proprio percorso di cura, di essere aiutati al proprio domicilio, di essere considerati come soggetti unici che però necessitano di relazioni.
Oggi si tratta di arrivare a casa della gente con una sanità più attiva, come si suol dire. E questo non vale solo per la psichiatria, ma per tutte le patologie croniche e cronico-degenerative. Serve allora una sanità del territorio capace di mettere insieme le risorse. E le risorse non sono poche perché – a ben guardare – nel nostro sistema di welfare le risorse in campo sono enormi: risorse economiche, finanziarie, tecniche, strumentali, umane. Quello che fa specie è la loro frammentazione: la frammentazione fra le risorse del pubblico e del privato, la frammentazione tra privato e privato sociale, la frammentazione fra ciò che è istituzionalmente gestito dallo Stato e le risorse informali della gente.
Riuscire a riconnettere le risorse della gente con le risorse delle istituzioni: è questa la grande terapia per ricostruire la città, la città che cura, una città capace di trovare la risposta ai nostri bisogni collettivi. Ma questa città può rispondere ai bisogni collettivi solo se le sue forze non sono frammentate, se le tribù non sono più tribù, se si buttano giù i muri tra i vari saperi, tra le varie discipline, tra i vari poteri, tra i vari ambiti.
Fare salute nei quartieri. Il sogno è allora la costruzione di una «città terapeutica», capace di occuparsi dei propri cittadini?
Sì, la sfida è quella di andare oltre, verso la città che cura, che tenta di coinvolgere tutte le risorse di un contesto, di un conglomerato urbano, di un paese o di una comunità – vera o finta che sia – per occuparsi dei propri cittadini.
Credo che non sia una sfida demenziale. Voglio dire, non mi pare una cosa assurda, che stia in cielo, ma una cosa concreta, che può arricchirsi attraverso distretti sociali e sanitari che non siano solo espressioni geografiche, ma luoghi in cui si organizza istituzionalmente una risposta più intersettoriale ai bisogni dei cittadini. Distretti che mettano insieme le risorse del sociale, del sanitario, dei cittadini.
A Trieste l’Azienda sanitaria ha promosso esperienze di «microarea» per fare salute nei quartieri. In alcuni rioni della città si è cercato di sperimentare fino in fondo la conoscenza dei problemi dei cittadini – i cittadini di quell’area – per rompere con le iniquità e con le disuguaglianze nell’accesso ai servizi. Non si è ancora riusciti a estendere il progetto a tutta la città, lo stiamo sperimentando su piccole aree mettendo insieme le risorse dei comuni, dell’Azienda per i servizi sanitari, dei distretti, dei cittadini, delle associazioni, del volontariato, delle famiglie, delle farmacie, dei medici di base, delle parrocchie, dei commercianti…
Quello che questa sperimentazione mette in luce è che i territori sono veri e propri giacimenti minerari. Ed è colpa nostra se queste risorse non riescono a emergere e a mettersi insieme. «Nostra» intendo di noi tecnici, noi che ci occupiamo della salute dei cittadini, e che dobbiamo assumerci la responsabilità di abbattere i muri, di evitare lo spreco di efficacia che tutti questi muri determinano. In una società ancora ricca come la nostra, ma dove i bisogni di salute si fanno più complessi, il nostro compito è unire le forze per andare oltre.
Da questo punto di vista la crisi può anche essere una opportunità. È vero che fa correre rischi di arretramento al sistema della cura, ma può anche far comprendere meglio l’importanza di aprire, di contaminare. Può spingere professionisti e cittadini a uscire, a cercarsi, per inventare un sociale più ricco. Nella guerra tra inclusione ed esclusione che si gioca oggi nelle nostre città, è questa la sfida che dobbiamo portare avanti.
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