Una serie di tragici e orribili fatti, femminicidi, omicidi, tentati omicidi, capitati nel nostro territorio e nel nostro paese preoccupano l’opinione pubblica e pongono domande di diversa natura che richiedono l’analisi di molteplici elementi biologici educativi, psicologici, sociali, economici, culturali, valoriali, giuridici, etici.
Insieme a questo sono certamente utili una sensibilità per quanto attiene la sicurezza e la qualità della convivenza sociale e un’attenzione che contrasti ogni forma di indifferenza e disinteresse e aiuti mediante una vigilanza attiva a migliorare il delicato lavoro delle forze dell’ordine, dei servizi educativi, sociali e sanitari nonché a rendere partecipi e protagonisti i cittadini, le famiglie e tutte le articolazioni della comunità senza mai travalicare nei modi, linguaggi e toni i limiti imposti dalla misura e dal buon senso.
Tra i tanti temi che i fatti hanno riportato alla ribalta in questo breve contributo mi limiterò a delineare un tema cruciale, quello della imputabilità e in particolare della prassi in base alla quale, di fronte alla gravità, all’abnormità (“uccidere per vedere che effetto fa”), all’incomprensibilità (motivi futili, banali, inesistenti) degli eventi viene richiesta la perizia psichiatrica al fine di valutare l’imputabilità dell’autore di reato.
Questa pratica tende quindi a ricercare elementi che, nel momento in cui è stato commesso il fatto-reato, permettano di considerare assente o grandemente scemata la capacità di intendere o di volere. Una “patologizzazione” dell’evento che viene ad essere ascritto, in modo causale ai disturbi mentali anche transitori della persona che viene dichiarata non imputabile e prosciolta. Solo la presenza della pericolosità sociale potrà comportare la disposizione dal parte del giudice di misure di sicurezza.
Un iter che andrebbe profondamente rivisto: infatti, gli artt. 88 e 89 del Codice penale (c.p.) formulati nel 1930 (Codice Rocco) in un diverso contesto sociale e scientifici, alla luce anche della legge 180/78 e della chiusura degli OPG, andrebbero completamente aboliti come per altro era stato proposto in passato (già nel 1983) tramite disegni di legge presentati dall’on. Corleone che prevedevano l’abrogazione della legislazione penale per infermi e seminfermi di mente.
Mentre negli anni 30 del novecento il concetto di infermità era letto in base al paradigma di malattia mentale di tipo organicistico e descrittivo, nell’ultimo mezzo secolo si è avuto un grande cambiamento in psichiatria e si è verificato un allargamento della concezione di malattia mentale in relazione a diversi modelli di spiegazione (fenomenologico, psicodinamico, socio-relazionale) e agli stessi manuali diagnostici . Come conseguenza, il contenuto della nozione di infermità rischia di dilatarsi fino, così, a comprendere qualsiasi anomalia dell’attività psichica.
Infatti, vi è sempre una componente psicologica nell’agire umano e giudicare a posteriori (ora per allora) sulla sua qualità e le sue caratteristiche nel momento in cui è stato commesso il fatto appare un’impresa assai difficile e scarsamente scientifica (e in questo sono ancora di scarso aiuto le tecniche comprese gli apporti delle neuroscienze).
Il funzionamento mentale e i vissuti della persona non sono categorie totalmente dicotomiche (sano o malato) ma disturbi e salute convivono e sono dimensioni e vanno a costituire una continuità che va dal sano a malato passando per una serie di condizioni intermedie (le tante sfumature di grigio). Basaglia diceva chiaramente: “la follia è una condizione umana al pari della ragione e attenzione a considerarci solo ragionevoli”.
Fissare un limite preciso appare assai difficile e per alcuni aspetti arbitrario. E si presta a dispute legali basate su perizie psichiatriche volte ad orientare l’iter processuale. Infatti, in Italia è in vigore il c.d. “doppio binario”: un percorso per i soggetti imputabili ed uno diverso per i non imputabili (in passato incentrato sull’ OPG, oggi sui dipartimenti di salute mentale e le REMS). Questo andrebbe superato: lo sforzo per comprendere e curare la persona deve essere sempre fatto ma non deve portare alla psichiatrizzazione della devianza e della delinquenza.
Come detto, mentre la questione psicologica appare assai complessa e sfuggente (e pertanto assai difficile da valutare), il comportamento (ciò che il soggetto ha fatto) è più facilmente rilevabile e giudicabile. Credo che questo sia giusto farlo per tutti: il diritto ad essere giudicati deve riguardare tutti anche le persone con disturbi mentali. Queste, nel loro complesso non commettono più reati degli altri cittadini e pertanto sono in grado di rispettare la legge come gli altri.
La persona deve essere sempre responsabile e imputabile e non vi devono essere fattori medici, psicologici, sociali, economici e relazionali che la attenuano o la aboliscono. Questo non significa che non si debba esaminare, capire, cercare di dare una spiegazione e curare ma senza variare l’imputabilità.
Così la persona (anche con disturbi mentali) viene aiutata a confrontarsi con la realtà, e con il tempo necessario può prendere atto di ciò che ha fatto, assumere un senso di responsabilità e sviluppare forme per riparare con la vittima e la sua famiglia, iniziare un faticoso cammino per chiedere perdono e mettere in atto forme di riconciliazione.
Prosciogliere il reo non imputabile in relazione ad un disturbo mentale crea in molti casi una situazione confusiva: la persona non è aiutata a capire ciò che ha fatto e viene immessa in un percorso ambiguo e incerto fondato sulla valutazione della pericolosità sociale e sulle misure di sicurezza concetti e strumenti anch’essi degli anni 30, attualmente incerti e superati.
Quindi sarebbe assai preferibile che tutte le persone autrici di reato seguano l’iter della giustizia e vengano sottoposte a processo. Poi una volta avuta la sentenza (e se colpevole, irrogata una pena con funzioni retributive e rieducative) la persona deve essere curata nel migliore dei modi e secondo le attuali migliori conoscenze. Quindi se affetta da un disturbo mentale verrà curata negli istituiti di pena o nei servizi di salute mentale (anche nelle REMS, riviste alla luce del nuovo ordinamento) secondo precise indicazioni e idonei programmi terapeutico e riabilitativi che dovranno tenere conto anche della posizione giuridica e potrà beneficiare delle misure alternative e percorsi personalizzati (come per altro dovrebbe accadere per tutti i soggetti condannati al fine di rendere utile la pena). Quindi nella massima chiarezza verranno affrontati i sintomi psichiatrici, cercando di trovare un senso, una speranza e favorire la recovey e il pieno recupero della persona rea alla vita con gli altri esseri umani.
Questo non solo è civile ma è in linea con gli attuali orientamenti della psichiatria che considera la persona malata portatrice di diritti e doveri al pari di tutti gli altri cittadini. Una posizione che va sostenuta, anche perché sia sempre maggiore la capacità di ciascuno di vivere con dignità e nel pieno rispetto dell’altro vedendo sempre anche il punto di vista della vittima, specie quando è necessario dare voce a chi purtroppo a volte non l’ha più. Tragedie, infelicità e sventure che interrogano sulla presenza di tante sofferenze inutili e del male anche di quello estremo al quale dobbiamo far fronte con rigore e competenza senza mai perdere il senso profondo della nostra umanità.
(*) Direttore del Dipartimento Assistenziale Integrato Salute Mentale Dipendenze Patologiche Ausl di Parma