Una volta erano i “matti”, gli “alienati” per chi cercava un linguaggio più raffinato. Secondo le stime dell’European Study on the Epidemiology of Mental Disorders (ESEMeD), in Italia circa tre milioni e mezzo di persone hanno sofferto di un disturbo psichiatrico nell’ultimo anno, in due casi su tre disturbi d’ansia, depressione maggiore, fobie. Per loro il Comitato Etico della Fondazione Umberto Veronesi ha elaborato un documento dedicato: il Decalogo dei diritti delle persone malate con problemi psichiatrici. (vedi sopra) Una lista di concetti semplici, dal diritto di essere riconosciuti come persona a quello di ricevere informazioni comprensibili sul proprio stato di salute e sulle cure, da quello di disporre di spazi autonomi e di conservare oggetti personali al diritto alla riservatezza. Concetti ovvi? Meno di quanto pensiamo.
A cosa serve un decalogo, lo chiediamo a Marianna Gensabella, ordinario di Filosofia morale all’Università di Messina e membro del Comitato Nazionale per la Bioetica, che ha scritto un appassionato commento sul primo numero della rivista The Future of Science and Ethics, curata dal Comitato Etico della Fondazione. “Intorno alla malattia mentale c’è un pesante stigma sociale e culturale – spiega -. Il malato psichiatrico è ancora visto come diverso, persiste un pesante stigma che è quello della pericolosità sociale, a volte con qualche giustificazione, più spesso no”. Difficile avere dati quantitativi attendibili sulla “pericolosità” dei disabili mentali, ma sono più le cronache in cui essi sono le vittime o quelle in cui sono i colpevoli di reati? “Il decalogo mette in ordine i diritti umani fondamentali che per queste persone sono tutt’altro che scontati.”.
Punto primo. C’è la parola “diritti”, osserva Marianna Gensabella: “Le persone con una malattia psichiatrica sono l’emblema della vulnerabilità, a volte non riescono a raccontarsi, a relazionarsi, a difendere la propria posizione. A loro serve non essere considerati solo in un’ottica di assistenza, ma anche di giustizia”.
Punto secondo: la parola “persona”, non “malato” o “paziente psichiatrico”. “L’esperienza che si fa con la malattia è quella della perdita di identità: si è un malato e si diventa solo quello, ed è ancora più vero quando la malattia è psichiatrica. Il primo diritto nella lista è il riconoscimento della persona anche in una situazione di cura, in cui la vulnerabilità sembra giustificare la perdita di autonomia e di identità ( è’ per il suo bene, poverino, è malato). Diventa lo schizofrenico, il paranoico, il depresso grave e tutto ciò che è stato, il suo ruolo e la sua storia scompaiono. Essere riconosciuti è un diritto di queste persone, riconoscerle è un dovere di noi tutti”.
Dopo quello di essere riconosciuti viene il diritto di essere accettati e accolti senza giudizi né pregiudizi. “Abbiamo il dovere etico di ribaltare la visione attuale della malattia mentale, improntata all’isolamento e alla discriminazione – un tempo si parlava di “alienati” – per arrivare invece a dire: tu sei come me, tu sei uno di noi”.
E sul piano delle cure? Fra gli altri, vi è un “diritto a ricevere cure finalizzate al recupero degli spazi d’autonomia”. “Le cure – commenta Marianna Gensabella Furnari – hanno una doppia valenza, sociale e terapeutica: se c’è una buona cura, c’è anche una buona inclusione e viceversa. La buona cura però non è fatta secondo il vecchio modello del malato da custodire da controllare, piuttosto secondo il modello del malato da liberare; è l’autonomia il punto dolente per una persona che, ricordiamolo, può subire trattamenti sanitari obbligatori (Tso), contenzione fisica e farmacologica. E sono misure che come abbiamo denunciato nel 2015 in un documento del Comitato Nazionale per la Bioetica non vengono riservate ai soli casi eccezionali, come dovrebbero”.
Qual è la situazione in Italia? “Serve concretezza. Siamo considerati un paese all’avanguardia, abbiamo avuto la legge Basaglia (l. n. 180) nel 1978. Ma a distanza di quasi 40 anni abbiamo una applicazione soddisfacente della legge? Abbiamo un’accoglienza reale, un’assistenza garantita sul territorio? Evidentemente no. Abbiamo isole felici, e altre molto meno. Le persone sono affidate in molti casi alla buona volontà, alle famiglie, alle associazioni. Viviamo in un contesto di diritti affermati ma non realizzati. Per andare avanti verso una concreta realizzazione occorre un cambiamento culturale, della disabilità mentale bisogna parlare ovunque, in casa, sul lavoro, sui giornali e non solo fra addetti ai lavori. Ecco perché è importante il decalogo”.
Donatella Barus
@donatellabarus
Fondazione Umberto Veronesi
[articolo del 19 marzo – io Donna]