imagesdi Peppe Dell’Acqua

“Schizofrenia, la causa in un gene che altera il processo di ‘potatura’ dei neuroni” è il titolo della comunicazione di Repubblica.it del 26 gennaio 2016 ( vedi l’articolo) che mi aveva segnalato Giorgio Bignami, maestro sempre attento alle notizie certe e roboanti che di tanto in tanto arrivano dal mondo della ricerca biopsichiatrica.

Anche persone, che da tempo conosco e che vivono l’esperienza del disturbo mentale, mi avevano segnalato l’articolo. Domande inquiete. È mai possibile?Più apprensive le domande delle madri. Sapevo della ricerca – ho detto loro – ma non avevo dato chi sa quale peso. Non è la prima volta, da quando faccio questo mestiere, che mi è toccato di fare i conti ora con un neurotrasmettitore, ora con un particolare neurone e poi sempre più spesso con i geni e con il lancio dei “nuovi” farmaci.

Negli incontri che da tanto si tengono nelle sedi del Dipartimento di salute mentale di Trieste con i familiari di persone “con schizofrenia”, l’argomento non poteva essere trascurato e tante erano le domande cariche di angoscia: “La nonna, non sappiamo bene, pare fosse morta a San Giovanni… mio cognato è stato sempre un po’ strano… e gli altri fratelli potranno avere figli sani?” Non fosse che per questo, la ricerca, e le conquiste impensabili e straordinarie delle neuroscienze dovevamo conoscerle e parlarne.

Chi avesse il tempo di frequentare uno degli innumerevoli convegni delle società psichiatriche, finanziati sempre dall’industria farmaceutica, si convincerebbe che è vicina la realizzazione del secolare sogno degli psichiatri. Il sogno almeno di quelli, e sono tanti, convinti che le malattie mentali siano nel cervello. La suggestione delle immagini colorate e tridimensionali dei neuroni non ammettono dubbi. Appena fuori dal convegno, incontrando persone che con la malattia mentale hanno veramente a che fare, si sentirebbe disorientato. Si accorgerebbe che i modelli della malattia mentale disegnati con certezza fanno fatica a contenere la realtà e dovrebbe prendere atto della distanza tra i modelli di malattia colorati e puliti e la ruvidezza della vita singolare delle persone.

Chi vive l’esperienza del disturbo mentale è costretto, suo malgrado, a fare i conti con le conseguenze di questa distanza. Deve sopportare una penosa contraddizione. Da una parte la clinica che con la diagnosi promette farmaci e intanto semplifica, riduce e costringe all’unica identità della malattia. La persona diventa la malattia, soltanto la malattia. Dall’altra l’insopprimibile volontà di resistere, dei giovani specialmente, e di giocare tutte le possibilità della propria esistenza.

I giovani all’incontro con l’esperienza psicotica (della schizofrenia) devono affrontare prove durissime per restare protagonisti, per esserci, per dare un significato alla loro inaspettata esperienza. Per gli operatori della salute mentale la separazione tra il modello biologico di malattia e la vita delle singole persone è logorìo quotidiano. Ragione di frustrazioni e di entusiasmanti scoperte .

La psichiatria occupata a dimostrare la sua “scientificità” sembra non vedere la singolarità delle esistenze. Il quotidiano diventa un fastidioso rumore di fondo che tenta di rimuovere mentre il miraggio del farmaco ”che modula quel neurone” resta l’interesse dominante.

Non riesco a condividere l’entusiasmo di Claudio Mencacci, presidente della SIP, per il farmaco che verrà, ma non voglio essere frainteso.

Gli psicofarmaci si sono dimostrati utilissimi, e lo sono tutt’ora. Riescono a fronteggiare sintomi drammatici, a contenere le devastanti suggestioni del delirio, a lenire insondabili dolori, a consentire percorsi di ripresa e di emancipazione. Ma quando il farmaco spiega la malattia riduce ogni cosa, lo psichiatra non vede più la persona che gli sta davanti e pensa alla prescrizione. Il predominio del farmaco costringe a banali semplificazioni. Confonde ambiti e dimensioni incompatibili tra loro in quanto riguardano la vita, l’unicità dell’esistenza, le scelte che accadono in un singolare contesto, in una irripetibile temporalità. Il farmaco e il modello di malattia condizionano così i rapporti sociali, le relazioni e costringono nel patologico sentimenti ed emozioni, lutti e conflitti, passioni e indifferenze, amori e disamori. Un passaggio che non è cosa da poco. Le conseguenze sono evidenti nei servizi psichiatrici di diagnosi e cura blindati e con le persone legate ai letti, nelle affollate e immobili strutture residenziali, in comunità senza tempo che si dicono terapeutiche e che si situano fuori dal mondo aspro delle tensioni e dei conflitti (la cronaca quotidiana svela le violenze e i soprusi che accadono in questi luoghi).

È innegabile il contributo delle neuroscienze nei progressi, impensabili fino a ieri, della psicofarmacologia, della neuropsicologia, della riabilitazione cognitiva. La ricerca, tuttavia, sta chiarendo sempre meglio i limiti dei modelli biomedici quando applicati alla singolarità della persona, alla malattia mentale e alle infinite correlazioni tra i geni e gli eventi, i neuroni e la storia. Le medie, le scale, le oggettive osservazioni poco hanno a che vedere con le persone, con le singolari e molteplici identità. Soprattutto chi fa ricerca nel campo delle neuroscienze sa bene che il cervello medio è cosa ben diversa dalla singolarità del cervello, sa bene che ambiti differenti, diverse stimolazioni sviluppano reti neuronali e modalità di funzionamento singolari.

L’articolo di Nature, che Repubblica fa bene a divulgare, indica invece con certezza ammirevole che la c.d. potatura dendritica, geneticamente determinata da un solo gene (C4), sia la chiave che spiega la schizofrenia, mentre autorevoli ricercatori affermano che la causa della schizofrenia può essere la via finale comune, di un insieme di condizioni e parlano del coinvolgimento di altre decine di geni.

Tutto il mondo scientifico (e noi con loro) non nega la componente genetica, ma la iscrive in un variegato terreno di possibilità che altro non sono che le singole cartografie della vita di ognuno. Il gene interagisce, si modifica, cresce a dismisura o scompare negli infiniti e incalcolabili percorsi relazionali, negli sguardi, nei successi e nei fallimenti. E’ quanto oggi si definisce epigenetica e rappresenta un segmento di estremo interesse nello studio senza fine del rapporto tra cervello e mente, corpo e sentimenti, biochimica ed emozioni.

A Trieste e in tanti altri luoghi in Italia, più o meno conosciuti, da più di quarant’anni, messa in angolo la malattia e al centro la persona, è stato urgente aprire le porte, abolire i camerini d’isolamento, riportare nella città un’umanità dimenticata: inventare le nuove istituzioni della salute mentale. Si è scoperto un gene stranissimo e sconosciuto alle psichiatrie e alle accademie che accelera la potatura delle istituzioni totalizzanti! Un impegno che mette quotidianamente alla prova gli operatori, i centri di salute mentale 24h, le cooperative sociali, le associazioni.

I programmi singolari di cura rendono possibili ora percorsi di ripresa a costo di fatiche, cadute, incertezze, conflitti, fallimenti. Le persone che vivono l’esperienza del disturbo mentale (della schizofrenia), sempre più numerose parlano, si associano, partecipano. Persone che riconoscono la loro condizione, che vogliono sapere di più sui farmaci, sui geni, sulla natura stessa della malattia e ci insegnano con pazienza che la cura della “schizofrenia” è possibile.

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