di Francesca de Carolis
Non si ricorda mai abbastanza, quanto sia enorme il volume di sofferenza che la malattia mentale sempre porta con sé. Non si ricorda mai abbastanza, sopraffatti dall’ansia per noi sani e per una presunta nostra sicurezza che tanti orrori ha prodotto e ancora produce. Eppure, la storia dell’esperienza di Trieste e dintorni, ci ha dimostrato e ancora continua a dimostrarci che esistono strade, che queste strade è più facile trovarle quando al centro della ricerca è la coscienza dell’umanità e del dolore dell’altro. Come ci racconta quello che accade in questi giorni a Mattia.
Mattia. Una vicenda triste, se snoccioliamo le difficoltà della sua vita, i momenti di autentica sofferenza, fino ai primi segni di fragilità profonda di una persona da sempre portata ad amplificare le paure. Ma la sua vita è una rimonta costante. Mattia si è laureato, ha avviato lavori, ha una vita sociale, amici, ha chiesto troppo, ha avviato imprese forse troppo grandi. Ha dovuto chiedere aiuto al Centro di salute mentale del suo quartiere.
Accade che nell’autunno del 2014, mentre si trovava in vacanza in Ungheria, viene derubato del portafoglio. Viene preso dal panico. Si avvicina a un tassista e cerca di prendere la sua automobile per tornare a casa. Un’idea infantile che torna: Mattia da piccolino aveva una forte passione per le automobili. Le conosceva e le riconosceva tutte, sapendole denominare, classificare. Proponeva sempre il gioco delle automobiline, ricorda la madre adottiva che negli anni attenta lo segue. Ne portava sempre con sé, racconta, strette nelle manine e nelle tasche. Nel momento del disorientamento cerca dunque di riappropriarsi di un’auto.
Dopo 100 metri viene fermato. Ha commesso un reato. Lo arrestano, incriminato e ritenuto “socialmente pericoloso” lo internano in un manicomio giudiziario ungherese. I manicomi sono tutti uguali, si parla dovunque la stessa lingua. Lombroso con le sue teorie rappresenta il made in Italy più conosciuto al mondo.
La famiglia, gli operatori triestini e gli avvocati, con fatica, riescono dopo un anno e mezzo a ottenere l’estradizione e riportare Mattia in Italia. Un anno e mezzo, tempo lunghissimo, pensateci, per un reato così insignificante, che minime conseguenze avrebbe avuto per chiunque altro non marchiato dalla presunzione della pericolosità sociale. Ma alla fine, nonostante tribunali e legislazioni diverse, va riconosciuta la perseveranza di chi, di qua e di là dalle frontiere, senza irrigidirsi in burocrazie, ha trovato modo di dare la priorità alla storia di Mattia e di stare vicino alla sua famiglia. Grazie anche all’intervento della Commissione per i diritti umani del Senato che ha attivato l’ambasciata italiana è arrivato il giorno del ritorno.
Così il 7 gennaio Mattia è sbarcato in Italia, accolto da chi ha ora il compito di riportarlo alla piena normalità della sua vita, di cui, chi lo conosce sa, ha piena potenzialità.
Una vicenda triste eppur bella se si avvia verso un possibile lieto fine.
A cominciare dall’accoglienza all’arrivo a Fiumicino, dove fra gli altri Mattia ha trovato anche lo psichiatra del Centro di salute mentale che lo ha seguito e lo conosce bene.
Ora si trova nella Rems di Duino-Aurisina che è un Centro diurno frequentato ogni giorno in ore e per attività diverse da più di 50 persone e che dispone di due stanze per ospitare le persone di Trieste e Gorizia che come Mattia devono o dovranno sottoporsi a una misura di sicurezza. È questo il progetto della “Rems diffusa” che ha varato la Regione del FVG. Ancora una a Pordenone e una a Udine per 4 persone, 10 posti in totale che gli operatori della regione vorrebbero con tutto il loro impegno tenere sempre vuoti!
Già il Tribunale di Sorveglianza di Trieste, infatti, ha fissato l’udienza per il riesame della “pericolosità” tra poche settimane, per dare il tempo utile per stendere una relazione e un progetto terapeutico individuale. Il Tribunale di Sorveglianza ha anche già risposto alla richiesta di permesso di uscita giornaliera di Mattia, presentata dal DSM, affinché dalla Rems di Aurisina possa ritornare a frequentare il Csm territoriale che conosce.
E intanto la famiglia di Mattia scopre con gioia che anche questo momento di passaggio, in attesa che lui ritorni alla vita di uomo libero, è un luogo “possibile”. Perché alla Rems di Aurisina non esistono fili spinati, non ci sono manette, non ci sono controlli all’ingresso, né metal detector da oltrepassare, come nell’ospedale psichiatrico dal quale è stato tirato fuori.
In una lettera che scrivono per ringraziare tutti coloro che si sono occupati del loro Mattia, i genitori raccontano: “Le visite sono libere, possono essere effettuate in qualsiasi momento purché in orari decenti. Mattia è libero di muoversi in tutto l’edificio e nel parco circostante. La vigilanza è affidata a soli due infermieri, non c’è polizia e nemmeno l’ombra di guardie carcerarie dotate di manganello…”
Una bella sorpresa, anche perché purtroppo sono poche le Rems che cercano di funzionare per rispondere alla domanda di cura, alla quale sono chiamate attuando la dimensione terapeutica senza assomigliare a delle piccole carceri.
“Una bella squadra di giovani operatori motivati, infermieri, educatori, psichiatri, psicologi ha discusso e progettato col direttore come affrontare la nuova scommessa. E ce la stanno mettendo tutta – spiega Peppe Dell’Acqua, ex direttore del Dipartimento di salute mentale di Trieste che questa storia, fra le tante, segue – ma purtroppo quando le Rems sono state pensate, una commissione del Ministero volle interpretare con pensiero corto le prescrizioni della legge e pensare l’organizzazione interna come diretta derivazione dell’ordinamento carcerario, mentre la dimensione terapeutica non può prescindere dall’apertura, dallo scambio, dall’incontro”.
La maggior parte delle Rems si sono strutturate con una esagerata attenzione ai sistemi di controllo e di sicurezza. A cominciare dalla quantità incredibile di telecamere. Basta guardare le immagini della Rems veneta di Nogara, ad esempio. Per i 16 ospiti per i quali è pensata, c’è un sistema di videosorveglianza con 40 telecamere che coprono l’intera struttura, un servizio di vigilanza tutt’intorno, camici bianchi e spazi vuoti. Molto dice tutta l’enfasi che all’inaugurazione della struttura è stata data dall’assessore regionale alla sicurezza “esterna e interna”, alle rassicurazioni sulla presenza di una vigilanza privata “h24, all’esterno e negli spazi limitrofi”!
La sicurezza. Si traduce a volte in metal detector, alte reti in limiti segnati da gomitoli di filo spinato, quasi richiamo a trincee di guerra, o ad altri luoghi tragici di cui pure in questi giorni celebriamo la memoria. Questo in molte situazioni che Stopopg sta cercando di documentare.
Senza pensare all’alto numero di operatori impiegati ai quali viene chiesto solo di essere sorveglianti.
“Altro sarebbe – ci fa notare ancora Peppe dell’Acqua – se fossero occupati per programmi terapeutici sensati. Le Rems, inizialmente pensate come luogo altro dall’Opg, nella realtà, nelle modalità d’ingresso sono regolate da una folla di leggi e norme tutte derivate dal Codice Rocco, il Codice penale del 1930, sovradeterminate dal giudizio, oggi quanto mai arcaico e incerto della pericolosità e della conseguente misura di sicurezza. Dispositivi questi solo parzialmente intaccati dalla legge 81 del 2014. Dicendo che sarebbero diventate mini Opg questo esattamente intendevamo: un ritorno acritico alle culture manicomiali, che già negli anni ’60 apparivano ormai all’apice della loro potenza e in un imminente tragico declino. La Rems raccoglie tutti, a prescindere dalla gravità. È il giudizio di pericolosità che determina tempi e modi della misura di sicurezza. Il numero degli internati nei 4 Opg ancora in funzione, tuttavia, si è ridotto a un terzo e proprio in conseguenza della legge 81 sono finiti gli ergastoli bianchi e sono più frequenti le uscite con programmi terapeutico-riabilitativi individuali”.
Tornando a Matteo e alla Rems che lo accoglie ad Aurisina, i genitori scrivono: “qui tutto sembra voler dimostrare volontà d’accoglienza e di normalità”. Riusciamo a immaginare il respiro di sollievo dei genitori quando, andando a trovare Mattia, dopo qualche giorno dal suo arrivo nella struttura, l’hanno trovato in una stanza “normale”, con un abito “normale”. Insomma, niente sbarre alle finestre, niente pigiami o divise che annullano, che dichiarano al primo sguardo che sei un malato.
Ecco cosa scrivono ancora i suoi genitori nella lettera con la quale ringraziano tutti coloro che sono intervenuti intorno a loro: “Nella nostra famiglia esiste un rito domenicale ormai divenuto sacro e indiscutibile: ogni domenica alle 13 ci riuniamo tutti a casa della nonna Maddalena per il pranzo domenicale comune. Mattia è mancato per 15 mesi. Per 15 mesi la sua sedia vuota ci smorzava l’usuale allegria, ci faceva venir meno l’animo di discutere assieme le nostre vicende perché un clima di tristezza incombeva su di noi, con l’unico aspetto positivo di sentirci sempre più solidali l’un l’altro nel nostro dolore (…) Abbiamo spiegato la questione agli operatori della Rems i quali ci hanno risposto che ogni domenica potremo riunirci tutti per il pranzo attorno a un tavolo di una stanza vicina a quella di Mattia, porteremo il cibo da casa e avremo ospiti, se lo desidereremo, anche i due operatori”.
Il pranzo della domenica! Momento di gioia, momento, soprattutto, di normalità ritrovata. In attesa della felicità piena che “arriverà”- dice la mamma – “quando Mattia potrà essere nuovamente uomo pienamente libero e autonomo”. Ci sarà ancora molto da fare.
Morale della favola. La Rems basagliana è possibile! E ora bisognerà lavorare per dimostrare la sua inutilità. E’ possibile, per rubare le parole a Dell’Acqua, “abitare” la soglia. Non dentro e non fuori. Che è spazio da cui su tutto ancora ci si può affacciare…