di Francesca De Carolis.
Ricordate la storia di Stefano? Ne abbiamo parlato due mesi fa su queste pagine… (vedi) L’avevamo chiamato così, per tutelarne l’identità… Ma oggi la sua vicenda è approdata in Senato, dove la Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani, ha ascoltato Peppe dell’Acqua, l’ex direttore del Dipartimento di Salute Mentale di Trieste che questa storia dolente ha seguito e continua a seguire, e che si ostina a non voler abbandonare quel ragazzo al nulla a cui una sentenza lo vuole condannato. Pronunciarne il nome ora è forse già un po’ aiutarlo a uscire da quel nulla: Antonio Mottola.
Antonio, dunque. Appena diciannovenne e una via crucis iniziata che era bambino, fra psicofarmaci, letti di contenzione, violenze delle istituzioni e delle psichiatrie che si fa fatica a raccontare. Un percorso di recupero finalmente avviato, spezzato dopo che in seguito a una reazione agitata nata dalla paura, un’ordinanza di misura di sicurezza provvisoria del Tribunale di Vicenza in meno di un mese l’aveva spedito a Castiglione delle Stiviere. E fra cartelle cliniche, relazioni, anamnesi, infine la sentenza di condanna a quattro anni di misura di sicurezza lo ha chiuso in un ospedale psichiatrico giudiziario.
Oggi Antonio è nell’Opg di Reggio Emilia, dove non c’è contenzione, ma è isolato, chiuso in una stanza, perché non comprende ( e come potrebbe essere diversamente?) perché è lì. La sua condizione peggiora. Qualche giorno fa ha avuto la visita dei genitori. Ha retto dieci minuti. Poi non li ha più accettati, ha reagito in maniera sconnessa. E il giorno dopo un giornale locale ha portato la “notizia” di un internato “violento” che ha fatto riproporre dai sindacati reintrodurre la contenzione che lì era stata da qualche tempo abolita.
Una storia terribile, forse uguale a troppe altre che non hanno voce. Ritorna oggi che ancora afferra allo stomaco lo sguardo di Andrea Soldi, che “è stato un po’ soffocato” perché ha resistito a chi voleva portalo via per un trattamento sanitario obbligatorio, mentre ancora ci si chiede come possibile morire com’è morto Mauro Guerra, ventinove anni, ucciso sul finire di luglio mentre fuggiva, scalzo, dopo aver aggredito un carabiniere rifiutando, anche lui, il trattamento sanitario obbligatorio. Tso vissuti, e attuati, sembra, come mandati di cattura…
Antonio, Andrea, Mauro… e gli altri che non sappiamo.
Ad ascoltarla ora nell’audizione di Dell’Acqua, la storia di Antonio, che ancora aspetta di capire perché lo si vuole dannato…, diventa un percorso attraverso le contraddizioni di un processo di riforma mai completato. Una storia che può sembrare minima ma che, come sottolinea Dell’Acqua “squarcia un campo, quello delle istituzioni totali, davvero difficile e pure entusiasmante da attraversare”.
Una storia forse minima (e quanto minima è mai la vita di un uomo?) ma che racconta il tutto e mette in luce nodi enormi, questioni scandalose. Sullo sfondo la questione degli Opg e, soprattutto, la questione di norme che “persistono e sopravvivono alla legge 180, la rendono complicata e a volte anche alla mercé di interpretazioni abbastanza singolari”.
La storia “minima” di Antonio parla di trattamenti con neurolettici e contenzione nel Servizio psichiatrico di diagnosi e cura (di Vicenza da quando aveva 12 anni. “Non ho potuto contare i mesi, i giorni della contenzione- dice dell’Acqua- forse un anno”. Pensate, un anno da quando era poco più che bambino…
Questione scandalosa quella della contenzione. Castiglione delle Stiviere, che la regione Lombardia non ha intenzione di chiudere, ad esempio, rimane luogo dove vi si ricorre “preventivamente, successivamente, durante. Non c’è luogo dove sia così facile essere contenuti” testimonia Dell’Acqua. Ma se Antonio, caso “troppo difficile da gestire lì”, viene accolto a Reggio Emilia dove non c’è più contenzione, in Italia sono pochissimi i luoghi dove non vi si ricorre. La questione scandalosa è che secondo una verifica delle contenzioni fatta dal ministero della sanità, sui circa 300 servizi di diagnosi e cura solo nel 5 per cento di questi non si usa la contenzione. Una quindicina, pensate.
Stiamo parlando di contenzione meccanica. Inchiodati a un letto, per ore e ore, giorni e giorni, legati mani e piedi. Provate a immaginare? E come puntualizza nel corso dell’audizione Luigi Manconi, che della commissione del senato è presidente, uno studio scientifico stima come il ricorso alla contenzione meccanica riguardi una percentuale tra il trenta e il quaranta per cento, non solo delle strutture psichiatriche degli ospedali, ma anche delle residenze per gli anziani… A tratti ne leggiamo e ce ne scandalizziamo. Ma questo dato dà la misura del buco nero nel quale affonda la vita delle persone più vulnerabili.
La grande vergogna è che si tratta di una pratica senza statuto giuridico. Cioè nessuna norma la prevede né la vieta. C’è solo una forma di regolamentazione attraverso linee guida regionali, null’altro. Questione scandalosa, nella quale si affacciano tante altre storie minime… Come quella di Franco Mastrogiovanni, insegnante, morto nel reparto psichiatrico dell’ospedale di Vallo della Lucania dopo 87 ore di contenzione, anzi 82, ricorda Manconi, le ultime cinque hanno contenuto il suo cadavere… Come quella di Giuseppe Casu, un venditore ambulante, morto anche lui, a Cagliari, su un letto di contenzione… Per la cronaca, se per la morte di Mastrogiovanni i sanitari sono stati condannati per sequestro di persona ( il trattamento è stato una specie di tortura, l’uomo è stato lasciato per tutto quel tempo senza acqua, senza nutrimento…) a Cagliari la struttura sanitaria è stata assolta, ma il lungo processo ha lasciato molti dubbi. Storie minime…
Ma la questione scandalosa è che ancora c’è chi sostiene che la contenzione possa avere valenza terapeutica.
Eppure, si ricorda, il Comitato Nazionale di Bioetica nell’aprile scorso ha licenziato un documento dove si precisano in maniera molto chiara sia le condizioni attuali sia la necessità di porvi mano. La conferenza Stato- Regioni ha licenziato un documento adeguato per andare verso una regolamentazione, che parla fra l’altro di un tempo non superiore a quello definito per lo stato di necessità, 5-7 minuti. Nelle linee guida di alcune regioni si accolgono le linee guida della conferenza, ma rimangono parole… linee guida del nulla… mentre ci sono regioni come la Toscana, Friuli Venezia Giulia che hanno deliberato l’abolizione del ricorso alla contenzione.
Eppure, si chiede e chiede Dell’Acqua, se a Trieste, a Udine, a Pistoia, a San Severo di Foggia non c’è contenzione, perché negli altri posti si ragiona diversamente? Ricordando che la contenzione è antiterapeutica, produce negli operatori senso di frustrazione enorme e disaffezione, mentre chi la subisce fa fatica a parlarne. “E’ come la questione del ricordo nei campi di concentramento… la condizione di abiezione e annullamento è tale che si ha vergogna di parlarne…”. Storie minime, che compongono una questione tremenda…
La storia minima di Antonio racconta che dopo l’episodio che lo ha portato alla condanna, l’aggressione nei confronti del suo psicologo che ha procurato una frattura al polso, qualcuno chiama il 113 e Antonio, dopo una prima resistenza dice: “arrestatemi se ho fatto del male…”. In realtà non viene “normalmente “ arrestato. Viene legato alla barella, spedito in diagnosi e cura, ancora legato, riempito di farmaci… Il magistrato chiede parere al responsabile del servizio, chiede se Antonio è pericoloso socialmente, quasi quesiti propri di una perizia psichiatrica e non di una relazione sullo stato di salute. E se pure Antonio non ha mai commesso nessun atto contro cose e persone, fuori dai luoghi della cura, lo psichiatra risponde che è incapace di intendere e di volere e pericoloso socialmente. Scatta per il giudice l’articolo 206, la famigerata misura di sicurezza provvisoria, retaggio arcaico del codice penale… si aprono le porte del manicomio giudiziario. Poi anche il giudice di merito chiede perizia psichiatrica…
La vita minima di Antonio annullata nell’altro grande nodo. Quello della incapacità e pericolosità sociale. Ma cos’è una perizia psichiatrica, su cosa si fonda? Purtroppo, sottolinea Dell’Acqua, parliamo di opinioni di uno psichiatra e della committenza di un giudice…
Già, pensandoci bene… A riprova viene ricordato il caso Cogne. Ci avevate fatto caso? Erano stati nominati tre gruppi di periti, tre per la difesa, tre per l’accusa, tre dal giudice. Ebbene le tre commissioni hanno concluso ognuna secondo quella che poteva essere l’utilità del committente: capace, incapace, semi-inferma di mente. Per capire di cosa parliamo…
La storia minima di Antonio parla di totale incapacità e pericolosità sociale, e anche se il perito nel corso del processo dice che sarebbe auspicabile una condizione non detentiva, il verdetto invia Antonio Mottola per ben quattro anni in un Opg.
E come è stato calcolato quel tempo? Adesso capisco anch’io. In base a un’opinione. L’opinione che tutti hanno fallito e che tutti non potranno che fallire. Antonio Mottola, 19 anni, destinato a luoghi di alto contenimento che, a scorrere le vicende della sua vita, mai come per lui sono la causa e non la cura, chiuso alla vita per definizione.
Una storia minima che si radica su un altro grande scandalo, quello delle norme del nostro codice, ancora Codice Rocco. che parlano di incapacità e pericolosità sociale. E’ partita da poco una campagna per la sua abolizione, ma intanto quelle norme sono lì. Come commenta l’avvocato Marco De Martino, del collegio difesa di Antonio: “… uno strumentario irrazionale e non democratico come quello delle misure di sicurezza… che nascono con le teorie di Lombroso sulla base delle stesse teorie che distinguevano le razze. Quindi noi oggi abbiamo nelle aule dei tribunali quello stesso strumentario di origine totalitaria che vieta alle persone di circolare liberamente sul presupposto della pericolosità sociale…”. In altre parole, al giudice si chiede di prevedere il futuro ( farà ancora del male?) mentre l’incapacità di intendere e di volere fa scomparire la persona come soggetto di diritti, rendendone la vita indegna di essere pronunciata… Perché, ci piaccia o no, questo è.
La storia minima di Antonio parla della presentazione, da parte della difesa e degli operatori che lo hanno seguito, di un programma terapeutico riabilitativo individuale, di una piccola comunità disponibile ad accoglierlo, insieme a tutto il centro di salute mentale di Trieste, anche per allontanarlo dalle fallimentari esperienze di Vicenza. Tutto questo viene rigettato dal giudice, con la sola motivazione dei tempi del progetto… Nuovo ricorso, nuovo rigetto… oltre alla riconsiderazione solo delle vecchie cartelle cliniche, la motivazione che mancano adeguati controlli.
Bèh questa sì farebbe ridere, se non fosse da piangere. Racconta dell’Acqua: “Il ragazzo ha detto una mattina svegliandosi a una guardia carceraria che aveva avuto un’erezione, … quindi siccome il ragazzo è in fase di maturità sessuale non può andare in un luogo dove ci sono anche ragazzine… il magistrato entra impropriamente nelle decisioni del gruppo terapeutico, che saprà bene come comportarsi, cosa scegliere… quale terapie se un giovane è maturo o non per controllare la sua sessualità”
La storia minima di Antonio che, ahilui ha un’erezione…
Il grande nodo ben lo riassume Manconi, parlando di tentazione della razionalità astratta… “tanto più forte perché la follia, per tutti costituisce un fondo di inquietudine, una traccia di angoscia che quasi fatalmente porta all’esigenza di disciplinare, di costringere entro schemi rigidi, formalismo giuridico, palesemente impotente e spiegare il disturbo della sofferenza”.
La storia minima di Antonio ci dice, ultima cosa, oggi la più importante, che questo ragazzo continua a stare in un Ospedale psichiatrico giudiziario, oggi che non dovrebbero essercene più. Ci dice che sta subendo un enorme arbitrio. Che rischia di non essere più recuperabile mentre il Veneto continua a essere inadempiente nella costruzione di alternative agli Opg. Se fosse stato regolarmente processato per il piccolo reato commesso ( la lesione del polso fratturato dello psicologo che lo curava) non avrebbe avuto nessuna pena. Il nodo è tutto lì. La sottrazione al diritto di essere giudicato secondo le regole di uno stato democratico. Il diritto di essere persona.
E oggi, cosa si può fare perché possa tornare in un ambiente di cura “e non di destino”?
La risposta è in quello che la legge 81 indica a chiare lettere: un progetto riabilitativo individuale come quello più volte presentato dalla difesa. Ora si spera nella maggiore attenzione e umanità del giudice di sorveglianza.
Ma guardando all’Italia tutta, le storie minime di Antonio e degli altri urlano contro il grande scandalo del decadimento dei servizi di salute mentale, mentre c’è un gran fiorire di strutture residenziali. Che piacciono tanto, se assorbono oggi più di tre quarti del bilancio delle aziende sanitarie per la salute mentale. Un esempio per tutti. A Foggia, 600mila abitanti, di 32 milioni di budget 25 vanno per le strutture residenziali che accoglieranno circa mille persone. Sette milioni per tutti gli altri, più di 10.000, che hanno a disposizione strutture fragilissime. Mentre le strutture residenziali, da tempo se ne parla con seria preoccupazione, stanno diventando simili a quello che chi ha combattuto per la chiusura dei manicomi voleva dimenticare. Ma chi svela questa verità?
Le storie minime di Antonio, Andrea, Mauro e gli altri che non sappiamo… e ci raccontano che la 180 sembra bella e finita in parecchi posti…
Permettete una piccola nota. Rivedendo il video dell’audizione in Commissione per la tutela e la promozione dei diritti umani. Sono tutti molto attenti e compresi della questione i membri della commissione. L’impegno è a muoversi in direzione di inchieste, di una riflessione seria sulle norme per ragionare di una loro modifica… A qualcuno affiorano ricordi… il senatore Mazzoni parla ”di quando facevo il liceo e un compagno di classe, fino al quarto anno normale, poi un giorno si è asserragliato in un laboratorio di scienza, è finito in Opg e poi si è suicidato. Una storia di paradossi…e se sui giornali ci sono solo storie di ammalati abbandonati alle famiglie, qui siamo al paradosso contrario: una persona che potrebbe esser curata e che viene lasciata a marcire”
Ma ha ragione Peppe Dell’Acqua. La storia non è finita, e non si fermerà mai. “Nessuno ha mai pensato di risolvere una volta e per sempre il problema del conflitto fra la follia e la normalità, tutto questo ci sopravviverà. Si tratta di vedere di volta in volta quanto siamo in grado di rendere più adeguati i nostri modi di pensare intorno alla follia, di fare democrazia…”
Già, solo una questione di democrazia.