di Vito D’Anza (portavoce nazionale del Forum Salute Mentale)
Le ultime vicende, violente e drammatiche, gettano una luce sinistra, ma reale, sullo stato di molti servizi in Italia, nati per superare i manicomi e le pratiche che li sostenevano. Tali vicende sono frutti velenosi dello stesso albero: il manicomio.
Quanti bei Progetti Obiettivi nazionali sono stati varati nel nostro Paese, quanti bei Piani Sanitari Regionali sono stati emanati negli anni post riforma, quanti documenti della Conferenza Stato-Regioni sono stati elaborati! Ma mai gli enti che li hanno approvati si sono poi preoccupati di verificarne l’applicazione. Intendiamoci, tali dispositivi normativi sono stati utili per consentire a quei servizi e a quegli operatori che volevano attuare delle buone pratiche di avere anche un supporto normativo, delle indicazioni che legittimassero i percorsi per andare avanti. Ma è mai possibile però che in questo Paese ogni servizio, ogni regione, abbia potuto fare e possa fare tutto e il contrario di tutto? Che senso ha cercare ancora l’alibi di uno statuto disciplinare della psichiatria, debole e sempre provvisorio e senza certezze, per consentire pratiche manicomiali che persistono in tanti, troppi, servizi di Salute Mentale e che sistematicamente negano i più elementari diritti delle persone con disturbo mentale?
Le vicende drammatiche ultime, a una lettura superficiale, sembrano riguardare esclusivamente il tema importantissimo e fondamentale del Trattamento Sanitario Obbligatorio, ma a uno sguardo più attento rivelano lo stato dei servizi, ridotti troppo spesso a scimmiottare, e anche malamente, l’attività ambulatoriale di altre pratiche mediche fondate sul binomio diagnosi e terapia, farmacologica o chirurgica a seconda dei casi. Sarebbe ora che i servizi, gli psichiatri soprattutto, capissero che la psichiatria ha connessioni e implicazioni che le altre branche mediche non hanno, come il legame a doppio filo con la giustizia (TSO, amministrazione di sostegno, il folle reo) e la “ideengeschichte” o storia delle idee (la psichiatria nel tempo ha modificato “l’oggetto” del suo intervento lasciando per esempio gli omosessuali, le prostitute, gli epilettici per occuparsi dei bambini vivaci, dei bevitori d’alcolici, del gioco d’azzardo, della tristezza). Ormai, nella triste logica riduttiva “dell’ambulatorio”, i servizi (ma in particolare gli psichiatri e gli psicologi) considerano – anzi “trattano” – la persona con disturbo psicotico grave alla stessa stregua della persona triste, “trattando” la tristezza, il lutto, l’euforia sempre come malattia. E riducendo la sofferenza e il disturbo mentale semplicemente a “malattia” la disciplina medica, la psichiatria finisce inevitabilmente per non trovare risposte. Non quelle giuste.
Benché nel mondo la psichiatria si sia dovuta arrendere al fatto che l’abito della medicina le stava troppo stretto e sia stato inventato il modello bio-psico-sociale che fuoriesce dalla medicina tout-court, perché gli psichiatri si ostinano a voler rimanere nello schema etiologia-patogenesi-diagnosi-terapia-prognosi, sapendo che funziona per la medicina somatica ma non per la psichiatria? Gli studi degli ultimi decenni, studi che provengono da oltreoceano e oltremanica e non solo da “ideologizzati basagliani”, hanno portato alla salute mentale, alla recovery, ai temi dell’abitare-lavoro-socialità, a un ruolo rinnovato degli operatori nel percorso di guarigione, ecc. Ciò nonostante, nel Paese che ha realizzato la riforma più significativa al mondo, le scuole di specializzazione di psichiatria (con sporadici tentati innovativi) e quindi gli psichiatri che sfornano (ma il tema riguarda anche la formazione di altri profili professionali della salute mentale) sono tragicamente ancorati a modelli residuali storici e inadeguati.
Il tema è politico: è drammaticamente imbarazzante che i governi emanino dispositivi legislativi e le regioni legiferino su linee d’indirizzo per rispondere ai bisogni di cura dei propri cittadini ma poi lascino la formazione in mano a un mondo accademico che non intravede nemmeno da lontano gli obiettivi di salute mentale che in tali dispositivi sono contenuti. La politica non si può lavare le mani sostenendo la teoria dell’equilibrio dei poteri, nonché quello delle cattedre di psichiatria che rimane tragicamente autonomo e immutabile ed evidenzia l’impotenza della politica a realizzare i percorsi che essa stessa ha indicato nei vari PO e PSR.
Perché non realizzare corsi (con titoli riconosciuti) o master finalizzati alla realizzazione dei percorsi di cura previsti per legge a livello nazionale e regionale? I corsi di laurea e la formazione degli infermieri, per esempio, può andare bene lasciarli alle università perché è materia essenzialmente sanitaria-ospedaliera, ma limitare all’ambito accademico la formazione in salute mentale (e non riduttivamente in psichiatria) è assolutamente inappropriato.
Questi elementi mi sembrano necessari per affrontare l’emergenza TSO che oggi si pone a seguito dei gravi fatti di cronaca di questi ultimi mesi. Un’emergenza che è solo la punta dell’iceberg più generale del cattivo funzionamento dei servizi. Nello specifico del TSO si dovrebbe lavorare per avere innanzitutto un quadro chiaro su tutti gli interventi coatti – quindi TSO, ma anche Accertamenti Sanitari Obbligatori – secondo quanto indicato nella legge 180, e poi nella legge 833 e nei successivi PO e PSR. A tale scopo, tenendo conto che il flusso SDO, ossia relativo alle schede di dimissione ospedaliera, non sempre e non dappertutto fornisce elementi reali, si dovrebbe raccogliere i dati laddove tali interventi hanno origine: nei Comuni, con le ordinanze dei Sindaci.
Come il sen. Luigi Manconi ha giustamente dichiarato, il TSO non è un mandato di cattura né tantomeno, come ha scritto anche Peppe Dell’Acqua, il vecchio ricovero coatto dell’era manicomiale. Prima che obbligatorio è un trattamento sanitario, ed è un evento eccezionale di cura e non uno strumento ordinario di controllo. Ma troppo spesso viene considerato alla stregua di una qualsiasi pratica di cura, sbrigativa e indolore, per cui non bisogna perderci tempo più di tanto. E così, anziché essere presenti come servizi per cercare di convincere la persona a curarsi, per negoziare la cura, per provare a far calare i livelli di angoscia di un TSO non ancora eseguito e che potrebbe non essere eseguito, accade che la persona venga “catturata” dalle forze di polizia con l’intervento del 118 e portata in ospedale, meglio se legata o ammanettata, dove l’attendono neurolettici e benzodiazepine.
Eppure esistono delle linee d’indirizzo del gruppo tecnico della Conferenza Stato–Regioni, fatte proprie dalle giunte regionali, che indicano chiaramente che, in orario d’apertura dei Centri di Salute Mentale, lo psichiatra deve essere presente nel momento di proposta e di esecuzione del TSO. E i servizi dovrebbero tenere sempre altrettanto bene a mente, nel momento in cui viene presa la decisione di un TSO, che si ha a che fare con una persona che ha bisogno di cure. Un soggetto portatore di diritti umani, oltre che di diritti costituzionali. Accade invece spesso, purtroppo, che lo psichiatra si limiti, dietro segnalazione di vari soggetti, a mettere insieme qualche sintomo (di solito produttività psicotica o “agitazione psicomotoria”) e, “burocraticamente” da dietro la scrivania, avanzi richiesta – o convalida – di TSO.
Ritengo che prima di arrivare a un TSO sia importante che i servizi si relazionino efficacemente con le persone, cercando di rassicurarle, negoziando con loro il percorso di cura, impegnando tutto il tempo necessario in un lavoro che ha caratteristiche esclusivamente terapeutiche. Prima di eseguire un TSO occorre tentare e ritentare di convincere una persona della necessità di curarsi, “fino allo sfinimento”. E sappiamo bene che una persona sottoposta a TSO è sempre più arrabbiata, più incazzata, più ostile e quindi fin troppo facile preda della contenzione fisica (altra pratica tristemente routinaria in tanti Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura). Insomma, non si tratta di essere d’accordo o contrari allo strumento TSO: il TSO, quando persistono le tre condizioni previste dalla legge, si fa, ma sempre per ultimo e per forza, dopo aver tentato tutto il possibile e l’impossibile per evitarlo.
Per ultimo, mi sembra quasi una barzelletta che – secondo alcuni – la risposta a questi drammi si possa trovare nello spray “calmante”, somministrato a distanza, senza provare nemmeno a comunicare con la persona. Mi vengono in mente scene di rapimenti nei film dove le persone vengono addormentate con cotone imbevuto di cloroformio e poi caricate su un’auto e portate via. Solo che nei film non sono atti terapeutici.
[l’immagine in copertina è di Laurentiu Margalin]