Pensavo di sapere tutto o quasi sulla contenzione meccanica, questa primitiva consuetudine, mai estinta, di legare le persone definite agitate, o aggressive, o violente, nei luoghi della medicina in generale, e della psichiatria in particolare. Di cui non si parla mai, salvo quando accade l’incidente, il morto per contenzione, vedi Giuseppe Casu a Cagliari dopo aver trascorso sette giorni, ininterrotti, legato al letto, o Franco Mastrogiovanni a Vallo della Lucania, dopo quattro. Pensavo di essere un esperto, perché lavoro da dieci anni in SPDC (i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura ospedalieri, i luoghi dove più di altri s’indulge in questa pratica), e per averla sempre contestata e ricusata, giacché la reputo illecita e antiterapeutica.
Il libro di Giovanna Del Giudice, invece, pubblicato per la Collana 180 delle Edizioni AlphabetaVerlag 2015 (…e tu slegalo subito – Sulla contenzione in psichiatria), il cui titolo rimanda a una frase che Franco Basaglia ripeteva spesso (“quando vedi un uomo legato, tu slegalo subito”), mi ha fatto ricredere: ho ancora molto da imparare. Questo è un libro estremamente rigoroso, completo, ricco e netto nella sua negazione della sensatezza, liceità, eticità di legare le persone sofferenti, riducendole a corpi in agonia. Ciò che mi colpisce, delle molte suggestioni che il libro rimanda, è che legare una persona a un letto d’ospedale è solo l’ultimo atto violento di una serie di atti violenti che l’istituzione psichiatrica agisce nei confronti di una persona con un disturbo psichico acuto. Una persona che, quand’anche non arrivi in ospedale già ammanettata dalle forze dell’ordine, o forzata fisicamente, nel momento in cui varca la soglia del reparto psichiatrico viene spogliata, perquisita, privata di oggetti personali ritenuti potenzialmente pericolosi (lamette, cinture, lacci, accendini), regolamentata negli orari per mangiare, dormire, fumare, prendere i farmaci, fare i colloqui, privata della possibilità di uscire (porte chiuse, sbarre alle finestre e telecamere sono la regola, anche per chi è in ricovero volontario, ma sarebbero ingiustificabili e un sopruso anche per chi è in trattamento obbligatorio), obbligata ad assumere farmaci anche se non vuole, e forzata a ricevere iniezioni. Insomma, è forse un segno di follia se, in risposta a tanta prevaricazione e violenza istituzionale, una persona già in crisi reagisce con un moto di rabbia, tirando un calcio alla porta chiusa, o urlando, o rifiutando di prendere un farmaco imposto e non negoziato? Eppure è a questo punto che l’istituzione psichiatrica compie il definitivo atto violento: lega al letto questa persona.
Scriveva Basaglia, ne L’istituzione negata, che nel manicomio entra un corpo malato, un corpo già messo a dura prova dalla follia, già indebolito. Ma poi, quando inizia la carriera di malato mentale, quando varca la soglia dell’istituzione, del manicomio, quando penetra in quel luogo dove gli infermieri prima di uscire devono controllare serrature, posate, forbici e malati, là dove il corpo malato dell’internato è un suppellettile che ha lo stesso valore di una serratura, ecco che il corpo del malato diventa oggetto e (per dirla con le parole di Husserl) smette di essere leib, cioè corpo vissuto, corpo soggetto, corpo che sono, e diventa körper, corpo non più vissuto, corpo oggetto, corpo che ho. E quale possibilità ha l’internato del manicomio, per riprendersi quel poco di soggettività, per riprendersi il suo corpo vissuto, il corpo proprio, se non agire, agitarsi, reagendo, con la sua violenza (una violenza apparentemente immotivata, ingiustificata, inopinata, come sempre viene considerata la violenza del folle), alla violenza dell’istituzione manicomiale che ha oggettivato il suo corpo?
Il folle è violento perché è malato. Questo si pensa, di solito. E se invece la sua violenza fosse una risposta alla violenza delle istituzioni della follia? E se la violenza dell’internato (ieri) dei manicomi, o del trattenuto provvisorio (oggi) nei SPDC, fosse un moto di rivolta contro l’istituzione che lo mortifica, che sancisce la trasformazione del suo corpo malato in un corpo istituzionale, in una suppellettile da sorvegliare e controllare alla stregua di una porta, di una serratura, di una finestra?
Mi è sempre più chiaro perché i corpi obbligati dei malati, che da anni vedo depositare con violenza dentro i SPDC, per riprendersi un po’ di quella soggettività che gli viene estorta dall’istituzione, per tornare a essere leib e non körper, s’incazzano, s’insubordinano, diventano agitati, aggressivi, e quasi sempre la risposta dell’istituzione, del SPDC bunker, del servizio forte, blindato, è un rilancio, un’escalation della violenza iniziale, per cui ecco l’uso del farmaco a scopo non terapeutico (sedare) ed ecco l’uso delle fasce (legare).
D’altronde la medicina è la scienza del corpo morto, scienza che ha cercato di comprendere, nelle aule di anatomia patologica, l’uomo vivo, il malato, attraverso il corpo morto del cadavere. E pure l’ospedale, il luogo di cura per definizione, riproduce il corpo morto dissezionato del cadavere, coi suoi reparti per lo scheletro, per l’apparato digerente, respiratorio, cardiovascolare, eccetera. E in ospedale l’uomo vivo è gradito sempre allettato, clinofilo, perché la clinica è corpo morto, e pure nel reparto psichiatrico, deputato alla cura della psiche malata, il corpo è quasi sempre orizzontale, cadaverico, grazie al ruolo clinofilo di farmaci e fasce.
Anche Peppe Dell’Acqua, in un libro dello stesso editore, a cura di Stefano Rossi (Il nodo della contenzione), ci racconta in che modo si arriva a uno dei tanti legamenti che accadono, ogni giorno, nell’80% dei 323 SPDC d’Italia (probabilmente, in questo momento, sono circa trecento i corpi legati a un letto come cristi in croce, nei SPDC), in che modo inizia, per ognuna di queste persone bisognose di cura, una carriera morale di malato mentale crocifisso al letto.
E’ a partire da libri come questi, che raccontano la banalità, troppo spesso, dell’agire psichiatrico, e a partire da un recente documento del Comitato Nazionale di Bioetica (vedi il documento) in cui si “ribadisce la necessità del superamento della contenzione”, che nell’VIII Forum della Salute Mentale tenutosi a Pistoia (4-5-6 giugno) abbiamo voluto dare il via a una battaglia di civiltà, per abolire questo scandalo, lo scandalo della contenzione meccanica. Non solo, dunque, per ridimensionarne l’attuale applicazione estensiva, in ogni reparto, in ogni luogo della medicina e della psichiatria, per qualunque banale motivo, che quasi mai rappresenta il cosiddetto stato di necessità, ma per renderla proprio illegale. A questo proposito il documento, pur importante, del Comitato Nazionale di Bioetica, conserva una sottile, eppur pericolosa ambiguità. Quando afferma che “la contenzione è un’uscita di emergenza… eccezionale, che permette ai sanitari di derogare alla norma di non legare i pazienti… che si è troppo spesso tramutata in una prassi a carattere routinario.” Invece io penso che la contenzione o la si abolisce, sempre, senza eccezioni, oppure l’eccezione ridiverrà la regola. D’altronde è già successo, con la legge 36/1904, e col suo regolamento applicativo, il decreto regio 615, che all’articolo 60 segnalava: “nei manicomi debbono essere aboliti o ridotti ai casi assolutamente eccezionali i mezzi di coercizione degli infermi…”. E sappiamo come è andata a finire.
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tempo fa cercando tra la rete mediale ho trovato un documentario. Il film si apriva con una bellissima e dura , commovente al tempo stesso dedica personale della regista a una sua parente internata nel manicomio di Imola. il terribile manicomio di Imola, come furono tutti e sono ancora . Il film si intitola “reparto 14”, dal nome del reparto più violento di quell’ospedale , il reparto delle donne agitate che venivano chiuse in una cella con la porta di ferro chiusa a chiave e legate al letto anche per anni e anni. Ci sono ancora i segni delle graffiature sulla porta .
la voce narrante è quella di un altro medico , Giorgio Antonucci che lavorò in quel manicomio. Mentre guardo il film e ascolto ,un pugno duro sullo stomaco che apre una voragine sanguinosa , penso ai miei bisnonni, internati a Perugia , lei perché ragazza-madre rifiutata dalla famiglia, lui ex combattente a Caporetto rifiutato da una moglie insana ed egoista di forti radici contadine. I miei bisnonni erano belli, giovani e sanissimi,e sono morti dentro il manicomio di Perugia a forza di luminal e bromuro .Come loro altri , tanti: Mastrogiovanni, Casu, Luca Gambini e quelli che sono morti fuori , perché si stima il 50% dei suicidi post ricovero. A partire poi dalla mia esperienza personale che ha conosciuto direttamente certe realtà,sia come attivista e sostenitrice della psichiatria di Laing e Cooper, Rivedo tante altre immagini di uomini completamente nudi legati al letto con fasce ai piedi, mani e petto,il membro sessuale scoperto alla vista di tutti, di ragazze giovani come me minacciate di contenzione, TSO per un nulla,sedazioni pesanti e ingiustificate e altro ancora perchè “bisogna trovare un crimine e adattarlo alla natura dell’internato per legittimare la punizione ” Erving Goffman.
Sono stata tra i pochi che ha denunciato, protestato e battuto la testa al muro, eppure continuo a vedere ripetersi e perpetuarsi le stesse identiche folli criminali dinamiche in tutte le istituzioni altrettanto malsane e assurde che oggi hanno sostituito i manicomi( spdc, csm,case-famiglia, comunità ) e nelle quali l’ideologia manicomiale continua a sopravvivere indisturbata e legittimata da una società intera con i suoi funzionari: istituzioni,autorità,polizia,medici, assistenti sociali . legittimata proprio da quella stessa legge tanto lodata da molti e innalzata come simbolo di cambiamento e rivoluzione culturale : la legge Basaglia non è mai stata una rivoluzione. Qui sta tutta la contraddizione e piena fallacia illusoria di cui continua a nutrirsi quella pseudoscienza vacillante e violenta chiamata psichiatria.La realtà vera e unica è che le pratiche manicomiali come la contenzione e la reclusione coatta per non parlare di tutta la serie di crimini all’umanità che sono stati fatti liberamente e continuano a farsi ( lobotomie, elettrochock, esperimenti farmacologici, torture psicologiche, violenze sessuali ecc.)sono sotto gli occhi di tutti ma nessuno o pochissimi denunciano veramente o parlano, si battono per cambiare davvero questo stato incredibile . Perché se fosse così se io fossi un medico o psichiatra , non mi limiterei a slegare e parlare con i pazienti del mio reparto o interrogarmi sul trattato di bioetica o sui punti del libro verde , perché questo non serve a niente. Perché quello che si deve abbattere una volta per tutte non è una porta ,il pregiudizio o una fascia contenitiva ma un’ istituzione intera con le sue pretese , ignoranza, opportunismo autoreferenziali,sporchi compromessi e giochi politici : una forma mentis radicata , assurda ,corrotta, folle. Basaglia è vero e come lui i pionieri della psichiatria democratica , organizzava riunioni con i pazienti e il personale,feste e uscite all’esterno, limitava le contenzioni , ma continuava poi a riportarli dentro l’istituzione totale del manicomio come luogo sicuro per se stesso, per le sue incertezze di medico e uomo, continuava a chiamarli “pazienti”, malati,continuava a riproporre anche lui i ruoli fissati del medico – paziente; sano-malato; curatore- oggetto da curare, riproponendo in questo modo il concetto e la concezione alienante e stigmatizzante della malattia mentale e del malato di mente o malato psichiatrico. Lo stesso Basaglia all’indomani del processo di deistituzionalizzazione diceva ” la psichiatria non sarà mai democratica. noi ci limitiamo a trasferire dentro mura trasparenti il nostro potere medico autarchico .” Questo esiste ancora in tutte le regioni italiane come anche a Perugia, la città dove vivo e sono nata dove la psichiatria continua a sfornare ciarlatani accreditati megalomani cinici e a essere solo esclusivamente mera speculazione politico-economica a danno grave delle persone. Le vere catene sono nella mente limitata di chi non riesce o non vuole vedere l’altro come persona. Pensiero unico, a una dimensione, soffocato, contenuto. Anna Harendt a proposito degli uomini del terzo Reich, compreso Hitler ha detto :”non erano uomini malvagi,eseguivano gli ordini, semplicemente non pensavano. Si vietavano di pensare”. Chi non pensa non prova sentimenti e quindi non può essere nemmeno un essere umano ma solo un folle criminale, il vero folle.
eleonora favaroni