invito Ugo Guarino per web (1)C’è voluta una decina d’anni, ma alla fine Ugo Guarino avrà la sua mostra a Trieste. Sarà la prima antologica di questo artista triestino tutto da scoprire, senza dubbio uno dei maggiori del Novecento, non solo protagonista e testimone di una stagione innovativa quale fu la rivoluzione basagliana, ma un pittore, e scultore, in grado di sperimentare e inventare sempre nuovi linguaggi. Mercoledì, alle 18, il Museo Revoltella apre le porte a “L’alfabeto essenziale di Ugo Guarino”, oltre duecento opere tra disegni, vignette, quadri, sculture, fotografie. Un percorso che per la prima volta esplora il ricco immaginario di un autore che ha disseminato di tracce la nostra quotidianità.

LA LIBERTA’ E’ TERAPEUTICA

di Peppe Dell’Acqua, Franco Rotelli e Michele Zanetti

(tratto dal catalogo della mostra)

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Cominciava nel 1972 la straordinaria trasformazione, a Trieste, del grande Ospedale Psichiatrico (1200 internati) da degradante e degradato manicomio a “scuola di libertà”: il direttore, Franco Basaglia (chiamato da uno di noi, allora Presidente della Provincia di Trieste) raccoglie un gruppo sempre più ampio di giovani collaboratori (tra cui gli altri due che qui si firmano) e avvia la destrutturazione di una istituzione totalitaria, violenta, carceraria e ferocemente escludente.

Via via le condizioni di vita mutano radicalmente; si aprono le porte, si abbattono i muri fisici e gerarchici, si animano con infinite assemblee nuove relazioni e cresce una straordinaria esperienza di democrazia e di partecipazione. Nutrita di egualitarismo, valorizzazione delle diversità, libertà globale, critica radicale di ogni forma istituita di esclusione sociale, e in particolare dei metodi e delle culture della psichiatria dell’epoca. Molti vennero a darci una mano.

Il San Giovanni si popolò di giovani vite e di voci ed esistenze rinate. La critica pratica dei manicomi,qui potentemente agita, trovò risonanza straordinaria tra intellettuali, uomini di cultura, forze politiche e sindacali, movimenti sociali. Ne verrà nel 1978 la legge (180) che dei manicomi decretò addirittura la chiusura definitiva (che avvenne, si sa, poi, molto lentamente, ma comunque avvenne in tutta Italia, con alterne conseguenze). Negli anni precedenti la popolazione dei manicomi italiani aveva raggiunto la cifra di quasi centomila internati.

Quel che cominciava ad accadere a Trieste non poteva non attrarre, anche per familiari e amicali tramiti, Ugo Guarino.

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In quei giorni non c’era un momento in cui non si stesse discutendo di qualcosa: dell’orario del pranzo e della cena, degli oggetti che le persone volevano riavere, della possibilità di uscire e circolare liberamente nel parco, organizzare diversamente le visite dei parenti,vestire i propri vestiti.

Ogni pomeriggio, lasciati i reparti, ci ritrovavamo in direzione a discutere col direttore delle cose che accadevano, delle cose da fare, dei rischi, dei problemi, degli inevitabili conflitti, delle opposizioni, delle resistenze all’apertura delle porte, del ruolo dei sindacati, dei rapporti con l’amministrazione provinciale, del senso dell’assemblea generale che ogni giovedì si riuniva nel reparto “Accettazione uomini”, delle assemblee di reparto, delle prime forme rudimentali di partecipazione, dell’apertura di un piccolo bar centro sociale e subito dopo di un giornalino ciclostilato, che nella sua infantile leggerezza segnalava l’urgenza della comunicazione. Era la mitica “riunione delle 5”.

Ugo arriva nel bel mezzo di quella riunione e viene presentato al direttore; un po’ di imbarazzo da parte di Basaglia, come sempre, poche parole di circostanza di Ugo e poi silenzio. Da quel momento è stato chiaro che Ugo avrebbe parlato poco, ascoltava e vedeva molto. Da subito la meraviglia dei suoi interventi. Il taschino della sua camicia era traboccante di matite, penne, pennarelli di diversi colori e grandezza. Portava sempre con sé una cartella con un pacco di fogli A4. Alla fine degli incontri, delle assemblee, delle discussioni più aspre, il segno nero del suo pennarello restituiva con chiarezza il senso di quanto andava accadendo. La rapidità dei cambiamenti, degli accadimenti, delle parole che nascevano e si consumavano rischiavano di essere imprendibili. I disegni di Ugo riportavano all’essenziale situazioni, progetti, conflitti.

amelia“Voglio un pettine” fu uno dei primi prodotti del laboratorio di serigrafia che era nato in quei giorni. Il poster della donna spettinata che rivendica un suo elementare diritto, chiariva meglio di tante parole il senso, l’urgenza, il peso dei bisogni sempre occultati e appiattiti dall’istituzione che ora di giorno in giorno emergevano, ci interrogavano e costringevano ad accelerazioni spesso incompatibili col fluire dei tempi e delle regole dell’istituzione.

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Ugo nel reparto Q, Osservazione donne, ha cominciato a passare ore e ore per cercare una sua posizione, un angolo, un suo modo di prendere parte. In uno stanzone appena reso disponibile avvia il collettivo d’arte Arcobaleno. Il vecchio atelier, che si trovava nel reparto B, dove pochi internati per poche ore al mattino venivano condotti per l’arteterapia, viene chiuso. Nello stanzone del reparto Q, che intanto è diventato il primo reparto misto, Ugo mette a disposizione di tutti e per tutto il giorno fogli, colori, matite, pennelli. Nasce “il foglio Arcobaleno”. Chiunque può entrare, fare qualcosa, guardare, parlare, far niente. Qualcuno, essendo ancora molto affollato il reparto, va in quelle stanze per mangiare in pace; altri trovano il posto tranquillo per riposare. Si preparano, quando è necessario, avvisi, manifesti, volantini con la collaborazione di chi è presente.Nel grande camerone al piano terra, che chiamavano “il soggiorno”, le donne restavano per l’intera giornata. Quel reparto ospitava più di 200 ricoverate. Dal soggiorno non si poteva uscire, un’infermiera sulla porta con le chiavi alla cintola vigilava, un’altra in un angolo doveva essere attenta a eventuali comportamenti disturbanti o “aggressivi”, un’altra ancora stazionava sulla porta del gabinetto dove le donne per andare, dovevano chiedere il permesso e dove non esisteva nessuna possibilità, nemmeno in quel luogo, di sottrarsi allo sguardo del controllo. L’arredo del soggiorno era ridotto all’essenziale: solo pesantissime panche, e tavoli altrettanto robusti. Ogni tavolo con le sue due panche teneva 10-12 ricoverate. Le ricoverate avevano progressivamente incorporato l’ordine di quel luogo: essere immobili e inespressive come quelle panche. Qualcuna si addormentava con la testa sul tavolo, altre guardavano non si poteva capire dove, altre ancora aspettavano il momento in cui l’infermiera permetteva di accendere una sigaretta, qualcunasi dedicava a piccoli lavori di rammendo, a maglia, a uncinettoquasi a voler segnare una distanza da tutte le altre e la sua personale resistenza a quell’annientamento. Queste che usavano ferri e aghi, oggetti pericolosi, per sicurezza erano sedute accanto alla vigile infermiera; anche di l’uso forchette e coltelli erano vietati. Molte non reggevano a quella fissità e passavano da un tavolo all’altro o misuravano a grandi passi il camerone per tutto il giorno. Già alle 7 del mattino, le donne erano lì per la colazione. Venivano svegliate alle 6. L’acqua dei lavandini nei bagni era disponibile solo per mezz’ora. Un rubinetto unico manovrato con una chiave dall’infermiera scandiva il tempo. Dai grandi cameroni dormitorio scendevano in gruppo a occupare le panche. Alle 7 arrivava la colazione, alle 11.30 o alle 12 il pranzo, alle 17,30 del pomeriggio la cena, alle 18 così come erano venute giù venivano riaccompagnate nei dormitori. Per le 19.30la giornata doveva essere conclusa. Arrivavano le infermiere del turno di notte che dovevano contare e verificare che le finestre fossero chiuse, accertarsi che tutte avessero indossato il camicione della notte. Portavano via gli abiti e le pantofole delle donne su un singolare appendiabiti con le ruote che veniva chiuso in uno stanzino.

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Tempo dopo, nel ’75, quella fissità è quasi solo un ricordo, il reparto Q ,come tutti gli altri, comincia a svuotarsi, le porte sono aperte da tempo: i vecchi mobili sono stati sostituiti da sedie, tavoli e poltroncine colorate. Lo spazio dei cameroni come dei reparti ora può modificarsi, le sedie leggere possono formare cerchi, angoli più riservati, simulare qualcosa di proprio. L’arrivo dei comodini nei dormitori sembra restituire per un momento qualcosa di personale. Poi il reparto chiude.

Q gattoUgo racconta l’abbandono del reparto Q con un’altra memorabile serigrafia “la libertà è terapeutica”. Dopo poco lo slogan diventa la grande scritta sul muro della direzione. Sul foglio Arcobaleno la lettera Q diventa un gatto seduto che si alza e va via circondato dalle firme di tutte le donne che con gli amatissimi gatti lasciano per sempre il reparto.Ugo ormai conosce bene i luoghi e gli anfratti più nascosti dell’ospedale. Comincia a lavorare sui mobili del soggiorno che sono stati ammassati in un deposito per essere buttati via. I mobili e le sedie riassemblati diventano inquietanti figure, la fissità che Ugo aveva ascoltato e visto nel camerone e in tutti gli altri reparti, l’assenza della parola, la costrizione alla piattezza di quell’identità ricreano l’angoscia di quei luoghi. Gli internati diventano sedie, tavoli, panche, testimoni silenziosi, dolenti e inconsapevoli.

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Quel mondo in trasformazione e lo sguardo di Ugo, la sua arte, il suo modo di esistere nonpotevano non riconoscersi immediatamente.

Ci accomunò un’identica idea della giustizia. Iscrittaper qualcuno di noi in un pensiero, perUgo certamente iscritta nel suo genoma.

Dentro l’Ospedale Psichiatrico gli internati lo guardavano come se fosse matto, luie le grandi scritte sui muri dei padiglioni, i suoi disegni e le sue sculture fatte di pezzi di mobili o resti di motociclette.

Con i grandi fogli “arcobaleno” da affiggere, nei reparti e ovunque, stimolò ascrivere, a disegnare, a esprimersi: tutti. (Soprattutto quelli ai quali sempre era stato negato il diritto a parlare).

Un suo giornalino, “Il fiammifero” creava piccoli incendi con le sue vignette (perché “siamo tutti nella stessa pentola, vogliamo manovrare il mestolo”). Con le sette statue dei Testimoni fissò fuori dal tempo l’assenza di tempo dei manicomi.

Grandi murales o volantini d’occasione, mostre in osteria o il ferreo e nero cavaliere neuropsichiatra incombente.

(foto di Fabio Battellini)
(foto di Fabio Battellini)

La grande muraglia con la scritta “Venite a prendere un elettroshock da noi firmato Pinochet” sta oggi ancora lì che nessuno si ricorda più del medico Salvador Allende.

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Nello sguardo e nel disegno di Ugo il re è sempre nudo.Critica delle istituzioni del controllo sociale, critica dell’arroganza dei saperi, della sopraffazione istituita, specie se “in uniforme”. L’Uniforme fu il vero oggetto della critica di Guarino (negli anni de “La Cittadella”, settimanale satirico annesso a “Il Piccolo”, e subito dopo, negli anni con noi) e il conformismo che quel potere sostiene. Non sarà mai allora uniforme la sua espressione artistica.

Ugo ha saputo buttar via dalla comunicazione tutto il superfluo, cercare l’essenziale, il segno distintivo e null’altro, e colpire nel segno in ogni vignetta, motto, bricolage.

Non compare mai alcuna figura che non riguardi l’universo della popolazione. Nessun disegno allude a un matto, a un “diverso”; le figurine sono quelle di un’umanità qualsiasi ovunque possibile perché ovunque si vorrebbe “manovrare il timone” della strana barca su cui viaggiamo e che lui disegnava. Perché ovunque le istituzionali sopraffazioni dei sottufficiali del potere si assomigliano e ci perseguitano. “La libertà è terapeutica” scritta a grandi lettere su muri e poi su manifesti e magliette in tutto il mondo fu una dichiarazione estrema per allora e grande lezione per tuttora.

uomo vestitoSenza Ugo Guarino non sarebbe stata così la storia della pratica trasformazione triestina. C’era voglia di cambiare tutto, c’era capacità di vedere negli altri soggetti peculiarità, originalità diversità, divertimento. Ugo gli ha dato simboli, sintesi e figure. Stendeva anche bianche lenzuola su cui invitava a dettare, a disegnare, ad esistere. L’Uniforme si sgretolava, si scioglieva come neve al sole: sotto la sua matita, sotto le nostre complicità.

Oggi, dalle fabbriche alle scuole, dalle aule di giustizia agli ospedali, le uniformi e l’Uniforme regnano sovrane nel silenzio dei subordinati.

La nostalgia di Ugo, della sua multiforme artigiana capacità di svelamento si fa acuta mancanza. Il re si è rivestito di panni meno nobiliari molto più grigio scuri, le grisaglie delle troike .

I camici non sono più inamidati: siamo perquesto più liberi o sono cresciuti i nostri concreti diritti?

Ha dato voci, immagini, icone alla liberazione dai manicomi. Un suo disegno valse più di mille parole.

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gerarchia1Abbiamo sempre avuto bisogno di artisti per questo. Vale ancora quel che scriveva Tadeus Kantor: “I politici oggi non sono responsabili, le autorità non sono responsabili, ma l’artista, lui deve essere responsabile.”

Ci offrimmo e con altri e reciprocamente la possibilità di essere responsabili e fu questo che chiuse i manicomi.

Non li avrebbe chiusi l’evolversi di un sapere che, se pur c’è stato in questi cinquant’anni, li mantiene in piedi per trecentomila persone in Giappone, per centinaia di migliaia in Europa.Li ha chiusi la forza diuna denuncia etico- politica. Lo schierarsi con mezzi deboli dal lato debole con la forza della verità: “La verità è rivoluzionaria” altro grande graffito di Ugo.

Quella verità essenziale che con lui ha usato materiali coerentemente essenziali. Forme apparentemente elementari, frutto della limpidezza di un uomo puro, di un artista nato tale e regalatoci a partecipare a una storia straordinaria che ha reso questo paese un po’ migliore.

Abbiamo avuto molti amici noti a quel tempo: Dario Fo, Sergio Zavoli, Gino Paoli e Foucault, Sartre, Guattari e Scabia e molti altri. Ma Ugo è stato qualcosa di più: è stato l’operoso e coerente interprete di un cambiamento; per gli strumenti che usava, per le materie che adoperava, per le sue mani magiche che in un attimo disegnavano il mutamento. Trasformando i milioni di parole delle assemblee che quotidianamente popolavano il manicomio in trasformazione, in un’immagine, una figurina, un motto, che tutto racchiudevano.

Materiali poveri: ma anche qui Kantor: “L’oggetto povero, il povero, è quello privato, sempre, delle funzioni specifiche della vita quotidiana. Lo si getta nel bidone della spazzatura. Sta per essere buttato nei rifiuti. E’ lì sospeso tra l’immondezzaio e l’eternità: il luogo dei rifiuti e l’ultimo scalino della realtà e l’eternità che è l’ultima soglia della nostra vita.”

Negli anni di San Giovanni la critica dell’uniforme trova il suo campo magnetico, il suo senso, la partecipazione ad una avventura, in parte riuscita, che di quell’Uniforme vuole disfarsi in particolare nell’istituto che ne sancisce obbligo e limiti: l’Ospedale Psichiatrico, il luogo della spazzatura.

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Lui sta lì, ridisegna, ricompone, scrive a grandi lettere, gioca: il suo gioco, innocente ma quanto consapevole, spogliando il re senza odio, ma senza sconti. E con questo dà calore, vita e gioia alla trasformazione, alla voglia di stare insieme per cambiare, per stare dalla parte giusta che lui, senza esitazione, per naturale scelta indica e decide.

Fu per tutti gli anni della trasformazione di San Giovanni e anche dopo, nell’incontro teso con la città, il segno che indicava come andare al nocciolo della questione, anarchico inerme e fratello d’armi nel tempo del conflitto- il più radicale possibile- quello tra normalità e follia, qui reso così, finalmente, disarmato.

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