di Anita Eusebi
Vivere nell’insicurezza espone anche la persona più equilibrata a una condizione di fragilità sul piano psichico. Se n’è parlato durante Màt, la settimana della salute mentale di Modena
Quando in una situazione di grave difficoltà si finisce per perdere casa, lavoro e affetti, poi cosa resta? «Voglio sperare che al di là delle macerie, al di là delle derive, ci sia sempre una possibilità di approdo», afferma Cristiano Regina, autore de La parte che resta, documentario proiettato lo scorso 21 ottobre a Modena nel corso di Màt – Settimana della Salute Mentale, durante il dibattito Senza fissa dimora e salute mentale moderato dal direttore di Piazza Grande Leonardo Tancredi. «È necessario riaggrapparsi con le unghie a quel che è andato perduto, per ritrovare possibilità di relazione e ridefinire una propria identità».
Un tema delicato quello dei senzatetto, che va affrontato «smarcandosi da un lato dalla dicotomia usuale tra la figura del clochard romantico vagabondo e il nuovo povero, dall’altro dal rischio di scivolare nell’assistenzialismo o nelle istituzioni totalizzanti, con il pericolo della cronicizzazione», sottolinea Tancredi.
«Vivere nell’insicurezza totale per la propria abitazione espone anche la persona più equilibrata a una condizione di estrema fragilità sul piano dell’equilibrio psichico», puntualizza Fabrizio Starace, direttore del DSM di Modena. «Figuriamoci le fasce marginali più svantaggiate. La salute mentale deve aprirsi all’incontro con le contraddizioni della sofferenza, rompendo il circolo vizioso che assicura loro una “comoda” (tra mille virgolette) carriera di paziente psichiatrico, una carriera che attiviamo per placare la nostra coscienza per non essere in grado di dare una risposta».
Preoccupante al riguardo la testimonianza di Emanuele Cavaliere, psichiatra dell’associazione modenese Porta Aperta. «Quest’anno abbiamo riscontrato il quadruplicarsi delle persone con disagio mentale rispetto al 2013. Bisogna comunque fare attenzione – precisa Cavaliere – non è sempre vera l’equazione secondo cui una persona prima finisce in strada e poi si ammala. Accade spesso anche il viceversa, ossia che una persona con problemi psichici fatichi a trovare lavoro e a stabilire relazioni, e a un certo punto si ritrovi in strada».
Per non parlare di chi, in fuga da guerre, violenze e miseria, giunge in Italia con un carico molto pesante di sofferenza. «Troppo spesso si dipinge una realtà che non corrisponde al vero. Senzatetto diventa un’etichetta, uno stigma», commenta Davide Mattioli, presidente dell’associazione culturale Partecipazione e curatore dell’edizione locale di Reggio Emilia di Piazza Grande. «Si dice che la maggior parte dei senzatetto sono immigrati irregolari. Forse statistiche alla mano è vero, ma è soltanto perché sono persone più fragili di altre. Un immigrato che perde il lavoro rischia di perdere il permesso di soggiorno, e se perde il permesso non lavora e quindi non paga l’affitto. Diventa irregolare. E senzatetto».
Marginalità e salute mentale, temi legati dunque a doppio filo nella realtà dei fatti e nei luoghi comuni di una “normalità” in cui è necessario salvare “la parte che resta”. Per non perdersi. Poiché, per dirla con le parole di Primo Levi in Se questo è un uomo, accade facilmente a chi ha perso tutto di perdere anche se stesso.
[articolo pubblicato sul Piazza Grande il giornale di strada fondato dalle persone senza dimora, novembre 2014 – credits foto Anita Eusebi]