di Pier Aldo Rovatti
[uscito su “la Repubblica”, il 24 giugno 2014 con il titolo “Se gli psichiatri si rimettono il camice bianco”]
Dove sta andando la psichiatria è una domanda ricorrente: essa risuona nei luoghi deputati (se ne è anche discusso di recente a Roma in un convegno sul Centenario del Santa Maria della Pietà), ma rimbalza a tutti i livelli, dalla politica al territorio diffuso del disagio mentale. La psichiatria (quella ufficiale) sta andando avanti oppure – in un modo più o meno esplicito – sta tornando indietro? Avanti o indietro rispetto a che cosa?
A quest’ultimo interrogativo è facile dare una risposta perché il giro di boa è avvenuto nel 1978 con la legge Basaglia (la “180”) che chiudeva i manicomi e restituiva agli ex internati quei diritti che erano già scritti, nero su bianco, nella nostra Costituzione. Un punto fermo, dunque? Non precisamente ed è proprio su questo che si è scatenata la battaglia che arriva fino a oggi. Per averne una conferma, basta solo ripercorrere l’acceso dibattito che ha preceduto e accompagnato (anche in Parlamento) il decreto approvato a fine maggio, con il quale si è spostata di un anno la chiusura definitiva degli Ospedali psichiatrici giudiziari (OPG) che ancora sopravvivono in Italia, nonostante tutto. In tale decreto sono stati introdotti decisi miglioramenti con l’obiettivo di evitare la riproduzione di molti piccoli manicomi criminali, di costruire percorsi di cura personalizzati nel territorio e di valorizzare il più possibile i Dipartimenti di salute mentale. E soprattutto si è stabilito un tetto temporale non oltrepassabile che sanasse lo scandalo di veri e propri “ergastoli bianchi” (uno scandalo evidenziato solo recentemente e che ha turbato profondamente il nostro stesso Presidente della Repubblica).
Non è qui la sede per scendere in ulteriori dettagli, voglio soltanto ricordare come si è fatta sentire in questo contesto la voce della psichiatria ufficiale attraverso una lettera inviata alla ministra Lorenzin dalla più potente delle sue associazioni. Facciamo molta attenzione – vi si legge – perché c’è il pericolo di essere trascinati dall’onda dell’emotività e di confondere coloro che rientrano in una diagnosi psichiatrica e devono quindi essere terapeutizzati, da coloro che sono “infermi di mente” e anche da coloro che sono socialmente anomali per via delle loro dipendenze e delle loro incapacità di integrarsi con gli altri. Traduzione: la psichiatria deve occuparsi solo di quelli il cui disturbo rientra nei canoni specialistici della disciplina (e i Dipartimenti di salute mentale non devono fare un lavoro di recupero che non li riguarda).
Ecco dunque la risposta. La psichiatria procede spedita verso una restaurazione del suo mandato puramente medico e tecnico-scientifico, manuali diagnostici alla mano e con l’occhio rivolto soprattutto alle neuroscienze. Medici del cervello che – per dir così – tornano finalmente a indossare il camice bianco e non vogliono più saperne di mandati sociali o politici. Allora si capisce bene perché le lodi di rito rivolte a Basaglia e alla sua legge siano perlopiù delle finzioni retoriche: Basaglia aveva infatti sconquassato la logica della psichiatria ufficiale non solo mettendo fuori gioco (e fuorilegge) ogni strumento di contenzione ma anche togliendo il camice agli psichiatri, denudandone il potere di controllo e riconfigurando in positivo il loro ruolo sociale e politico.
Nessuno, oggi, potrebbe negare il progresso scientifico (per esempio, nell’ambito dei farmaci), ma non si può neppure nascondere un regresso della psichiatria rispetto al cambio di passo sancito dalla “180”, grazie al quale coloro che sono affetti da disturbi psichici sono diventati “soggetti” nel senso pieno della parola e il compito della psichiatria si è trasformato in un ruolo sociale di rilevante responsabilità. “Si nascondono dietro un dito”, mi dice Peppe Dell’Acqua, lo psichiatra triestino che, portando da un capo all’altro della penisola il famoso “cavallo azzurro” di Basaglia, è stato uno dei maggiori protagonisti della lotta contro gli OPG. E aggiunge: “Tutto ciò che toccano diventa terapia”.
È molto difficile dargli torto. Aggiungo che il nodo da sciogliere resta sempre quello della “pericolosità sociale”, blindato nei vecchi codici penali e che buona parte della psichiatria ritiene – ma solo a parole – ormai obsoleto. Nei fatti, tutto rimane fermo su questo nodo, che forse è proprio ciò che permette agli psichiatri di nascondersi dietro a un dito e impedisce alla società in cui viviamo di diventare davvero civile, perché civile sarà quella società – come ha detto Basaglia – che riuscirà a ospitare effettivamente la follia. Il che significherebbe anche espellere finalmente dalle nostre menti l’idea di manicomio come recinto in cui rinchiudere i diversi e “difendere” la società stessa. Siamo purtroppo ben lontani da simile traguardo, come gli eventi ci confermano ogni giorno.