Martedì 13 maggio 2014. Una legge per la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari è in discussione a Montecitorio. Sembra si possa completare quel lunghissimo percorso di cambiamento che 36 anni fa era cominciato. Oggi di nuovo i parlamentari rispondono alla stessa domanda: “ma gli internati, ‘i pazzi criminali’, le persone con disturbo mentale che hanno commesso un reato sono cittadini? Valgono per questi cittadini i diritti della Costituzione?” Ancora no purtroppo. Anche se i parlamentari stanno cercando di rispondere con un timido sì. Continuano a restare fuori dal contratto sociale e dai diritti. Questa legge che vuole chiudere gli Opg per il 31 marzo 2015 comincia ad aprire spiragli. Malgrado tutto, questi internati stanno diventando cittadini. Il punto cruciale è soltanto questo. Malgrado un’accesa e a tratti poco comprensibile opposizione di psichiatri bravi e bravissimi. Malgrado le osservazioni colte e ben studiate di accademici e ricercatori. Chiudere gli ospedali psichiatrici giudiziari è un ulteriore passo di civiltà, di sviluppo della salute comunitaria e gli psichiatri e le psichiatrie devono esser capaci di far un passo indietro con le loro tecniche e le loro diagnosi, con le loro classificazioni e i loro certi trattamenti, e dire quel che è prezioso che dicano. Ma se di questo non sono convinti è bene che tacciano.
Sabato 13 maggio 1978 il Parlamento italiano approvò la legge che sarebbe diventata famosa col numero 180. La prima firmataria fu il ministro Tina Anselmi, democristiana, che aveva condotto con autorevolezza i lavori della commissione. Benché il parlamento stesse vivendo momenti così drammatici, era riuscita a tenere aperta una discussione ampia e a garantire che nella legge trovassero posto gli elementi di cambiamento più avanzati in una cornice di grande respiro etico. La legge che avrebbe chiuso per sempre i manicomi dice nel titolo, “Norme per gli accertamenti e i trattamenti sanitari volontari e obbligatori”, quello che semplicemente è: restituzione di diritto, di cittadinanza, di dignità alle persone che hanno la ventura di avere o di vivere una malattia mentale. Riconoscimento del diritto alla cura, alla salute nel rispetto della dignità e della libertà della persona. Insomma il legislatore affermò “semplicemente” che l’articolo 32 della Costituzione, scritto dal giovanissimo Aldo Moro, valeva per tutti, anche per i matti. A maggior ragione per i matti.
La legge nel decretare la fine dei manicomi, dei ricoveri coatti, spostò l’asse dell’assistenza psichiatrica verso il territorio, verso la costruzione di presidi psichiatrici territoriali extra ospedalieri, sempre più vicino ai luoghi, ai contesti, alle relazioni delle persone.
Giovedì 16 marzo 1978 sono a Barcola. Nella stanzetta che chiamiamo dei colloqui e dell’accoglienza, sto parlando con la mamma e il papà di una giovane donna in quel momento ospite al Centro. La stanza si trova proprio all’ingresso, la prima sulla destra. Molti ospiti abituali quando arrivano aprono la porta per salutare. Quella mattina, sono circa le nove e mezza quando: “Hanno rapito Aldo Moro – urla entrando Paolo Gallotti – le brigate rosse hanno rapito Aldo Moro. Cinque morti…” Faccio un cenno bonario di assenso, conosco da due anni Paolo e il suo delirio. Gli dico: “Va bene, va bene Paolo aspetta che finisco con questi signori e ne parliamo”. So che posso scherzare e aggiungo: “Oggi abbiamo notizie fresche dal KGB?…” Non mi permette di scherzare oggi e si arrabbia di brutto: “Ma va in mona, ma di cosa cazzo vuoi parlarmi, no go niente de dirte!” Che io ci creda o no, Aldo Moro è stato rapito.
(P. Dell’Acqua, Non ho l’arma che uccide il leone, 2007)