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(© Ilenia Piccioni| Molo7 Photo Agency)

di Antonio Tiso e Ileni. Esistono in Italia, nel 2007, sacche di terzo mondo, intese come luoghi sociali di emarginazione. Migranti sfruttati, rifugiati politici che chiedono accoglienza e malati di mente vivono in ghetti invisibili. Appaiono come accidenti all’interno di una società che non vuole e non può premunirsi e preoccuparsi delle proprie contraddizioni. Vogliamo ora avvicinarci alla condizione del malato di mente-reo in Italia e cercare di capire da quali ragioni dipenda l’incuria e la mancanza di previdenza del nostro sistema sociale, paragonabile alla cicala che continua a cantare l’estate e l’abbondanza, per nascondere la fame dell’inverno.

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(© Ilenia Piccioni| Molo7 Photo Agency)

Gli ospedali psichiatrici giudiziari (codificati con la sigla Opg) rappresentano oggi qualcosa di simile a un cimitero di vecchie barche, considerate non più buone per navigare in mare aperto. Figli dei manicomi criminali dell’Ottocento, gli Opg sono strutture in cui soggetti affetti da disturbi mentali che abbiano commesso reati penali, scontano una pena. Alcuni degli internati sono individui prosciolti per vizio totale di mente, dichiarati socialmente pericolosi. Non potendo essere sottoposti a carcerazione vengono accolti in Opg. Altri sono condannati, cioè individui giudicati in grado di intendere e di volere già reclusi in carcere, che durante l’esecuzione della pena sono colpiti da infermità psichica. Queste due categorie rappresentano da sole il 76,5 % della popolazione degli Opg. Il 23,5 % rimanente è composto da condannati con vizio parziale di mente, imputati detenuti in ogni grado del giudizio e condannati che vengono sottoposti a osservazione psichiatrica e, in ultimo, da imputati in attesa di giudizio definitivo ai quali sia stata applicata una misura di sicurezza provvisoria, in considerazione della loro presunta pericolosità sociale. L’attuale numero di soggetti presenti in Opg (sono sei in Italia) assomma a poco più di 1.200. Questa popolazione silenziosa è colpita principalmente da schizofrenia, insufficienza mentale con disturbi psicotici, disturbi di personalità ed etilismo con deterioramento.

L’Opg di Aversa, il più antico in Italia (fu istituito con decreto legislativo nel 1876) è forse il più rappresentativo del genere. La sua storia si è spesso intrecciata con la storia della psichiatria italiana del secolo scorso, dal positivismo alle contestazioni basagliane, rappresentando in maniera alternata polo di interesse scientifico e culturale da un lato, simbolo di orrore e rifiuto dall’altro.

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(© Ilenia Piccioni| Molo7 Photo Agency)

Facciamo il nostro ingresso all’interno della struttura aversana. I pazienti che vivono tra queste mura trascorrono anni delle loro esistenze scanditi da attese, ripetizione di azioni quotidiane, sigarette fumate con avidità, silenzi dal mondo esterno. È il giorno del riesame. Un magistrato apre le pratiche giudiziarie di alcuni internati che da poco hanno finito di scontare la pena reclusiva e valuta le perizie psichiatriche. A differenza del carcere, in Opg non v’è certezza della durata della pena. La condizione perché un internato possa essere rimesso in libertà al termine della pena stabilita dal giudice è che sia stata prodotta, a suo favore, una perizia psichiatrica secondo cui l’individuo non risulta più pericoloso per la collettività. In assenza di tale valutazione positiva, il letto dove fino a quel momento ha dormito per anni, continuerà a essere compagno di solitudine e pensieri privati.

Una fila di individui attende fuori da un ufficio. Attorno a loro le guardie penitenziarie vigilano. Gli sguardi degli internati sono un misto di speranza e rassegnazione. Ci avviciniamo a uno di loro.

Ci sorride con un sorriso amaro. Ricambiamo la gentilezza e allora ci chiede un foglio di carta e una penna. Gli porgiamo un quaderno e d’istinto disegna un treno, destinazione Bari. Poi fa lo schizzo di un edificio sotto il quale scrive: Aversa. E fa le corna, su Aversa. E su quello che questa città e l’Opg rappresentano. E manda baci verso le quattro lettere B, A, R, I. Un altro internato si avvicina e ci chiede anch’egli un foglio bianco. Ciò che vuole raccontare non ha bisogno di parole. Con la manualità di un bambino costruisce un aereoplanino di carta. “È dell’Alitalia! Speriamo non faccia sciopero”, fa lui, aprendosi in un sorriso impastato di tensione per la spada di Damocle che incombe sulla sua testa. Ci allontaniamo dalla fila. A uno a uno gli internati entrano nell’ufficio. C’è un silenzio di limbo attorno a noi. Questi sono adulti che sperano la loro vita possa giungere a un momento di svolta, di cambiamento. Al termine della giornata verremo a sapere che uno solo avrà ottenuto l’autorizzazione a lasciare l’Opg. La sorella del paziente ha dato la disponibilità a prenderlo in casa. Per gli altri non c’è stato nulla da fare. Non avendo qualcuno che possa dargli un tetto e una copertura economica, la vita prosegue tra le mura dell’Opg. E il soffitto della cella continuerà a essere l’ultimo confidente a cui rivolgere i propri pensieri di libertà.

Non c’è alternativa a questo sistema binario Opg-casa. Se sei solo, non esistono sul territorio strutture deputate all’accoglienza di pazienti psichiatrici dismessi. Sono assenti i servizi sanitari nazionali che non si assumono la responsabilità di offrire risorse nel campo della salute mentale. Questa grave trascuratezza porta al prolungamento dell’internamento del malato di mente-reo.

Oggi gli Opg attraversano una fase di sanitarizzazione, vale a dire è in corso un processo di trasformazione da istituto di semplice contenzione a luogo di cura, studio e riabilitazione. Eppure trattenere un internato dismissibile in ambito carcerario, per quanto mitigato nella sua claustrofobia da una maggior attenzione alla cura e alla diagnosi, è antiterapeutico, antietico. Certamente, e questo è un nodo fondamentale, mantenere i malati di mente in Opg comporta alle Asl territoriali e allo Stato un costo talmente irrisorio per cui è conveniente lasciare le cose come stanno. Ma il risultato è uno stato di regressione che inevitabilmente va a toccare strati di popolazione marginali, i cui diritti di uomini non sono diversi da quelli di chi decide per loro, senza alcuna curanza.

L’Opg di Aversa, in assenza di un’adeguata politica economica e sociale dei ministeri della Giustizia e della Sanità, cerca come può di valorizzare una strategia di cura. Combinare i pezzi di questo mosaico non è semplice. Conciliare custodia e cura porta inevitabilmente a equilibri precari quando non a situazioni di conflitto. Arduo è curare e al tempo stesso limitare la libertà personale. La struttura risulta sovraffollata: predisposta per ospitare 150 soggetti, il numero attuale di ospiti si aggira mediamente sulle 300 unità. A fronte dell’eccesso di pazienti, si registra una carenza di personale penitenziario e sanitario. Ogni internato può accedere settimanalmente a un colloquio di dodici minuti con lo psichiatra. La seduta psichiatrica dura meno di una partita a scopa, ma la direzione non ha scelta visto il budget economico a disposizione.

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