“Una città.it“, mensile di interviste e foto, dedica un intero numero alla presentazione di “Guarire si Può”, della Collana 180 (tutti i volumi su: http://www.edizionialphabeta.it/180. I testi possono essere acquistati anche sulle librerie on line: IBS e In Mondadori)
Barbara Bertoncin intervista Izabel Marin e Silva Bon.
Guarire dalla malattia mentale o comunque riprendersi la propria vita, giorno dopo giorno, senza trionfalismo, con i sintomi che a volte tornano, osando essere perfino orgogliosi della propria esperienza di disagio, fa tutto parte della nozione di recovery che rompe un tabù della psichiatria; cosa aiuta, cosa non aiuta e il difficile rapporto con i farmaci.
Izabel Marin, assistente sociale, lavora nel Dipartimento di Salute Mentale di Trieste. Impegnata nelle esperienze di deistituzionalizzazione in Brasile e in Grecia, ha pubblicato The Persons’ Role in Recovery nel volume collettivo dell’”American Journal of Psychiatric Rehabilitation”, 3, 2005, e (con R. Mezzina) Percorsi soggettivi di guarigione. Studio pilota sui fattori di recovery in salute mentale, in “Rivista Sperimentale di Freniatria”, 1, 2006.
Silva Bon, storica contemporaneista, ha prodotto numerose monografie, saggi, articoli, interventi sulla storia del Novecento. È stata dal 2003 al 2011 presidente dell’Associazione di volontariato culturale di donne Luna e l’Altra. Ha pubblicato, tra l’altro, Donne attraverso. Soglie, spazi, confini, libertà. Storie e riflessioni di donne dopo Franco Basaglia, Centro “Leopoldo Gasparini”, Gorizia 2012. La sua storia è stata pubblicata nel libro Lo chopin partiva, ed. Una città, 2007. Il libro di cui si parla nell’intervista è Guarire si può, Edizioni Alpha Beta 2013.
Cosa intendiamo quando parliamo di “recovery” nella malattia mentale?
SilvaBon. Recovery è un termine anglosassone, difficilmente traducibile in lingua italiana, non esiste una parola analoga, per cui spesso lo si traduce con una perifrasi: con “recovery” si indica la ripresa dopo uno svenimento, il recupero dopo una crisi; è in generale un riaversi, uno stare meglio rispetto ad uno stato precedente. Recovery, ripresa, riaversi, star meglio e anche guarigione non sono più parole tabù in psichiatria. Se fino a qualche anno fa si parlava di cronicità assoluta, di una malattia senza vie d’uscita, in questi due ultimi decenni, nel mondo anglosassone, nei paesi scandinavi, ma anche in Francia, sono nati dei movimenti che promuovono la recovery e che coinvolgono medici, operatori e soprattutto utenti.
IzabelMarin. Quello della recovery è un concetto che è stato elaborato e usato, anche strategicamente, dal movimento degli utenti – mi riferisco in particolare agli Stati Uniti.
La recovery, come nozione, nasce già a partire dagli anni Settanta, quando compaiono i primi risultati degli studi longitudinali sulle persone con una diagnosi di schizofrenia, da cui risulta che una grande percentuale di persone guarivano completamente o comunque registravano un miglioramento significativo, nel senso che vivevano la loro vita in un modo soddisfacente ed erano integrate socialmente. Questo è stato importantissimo. Fino ad allora, si credeva, per esempio, che il disturbo mentale grave non potesse avere altro esito che non fosse la cronicità, l’inguaribilità. Questo è stato un primo passo, ma erano ancora gli studiosi, lo sguardo scientifico, ad andare a definire chi era guarito e chi no. La vera svolta è avvenuta quando le persone hanno incominciato a raccontare dall’interno le proprie esperienze. La persona con una sofferenza psichica ha guadagnato un inedito protagonismo. È a quel punto che il concetto di recovery si delinea meglio: la persona può pure continuare ad esperire dei sintomi o anche a stare male per dei periodi; il dato decisivo è che possa comunque portare avanti il suo progetto di vita.
Patricia Deegan, una leader del movimento degli ex-utenti, alla fine degli anni Ottanta racconta la sua esperienza spiegando perché si considera guarita e cosa le sia servito. Il suo articolo viene pubblicato in un contesto scientifico. Questo è un secondo passaggio importante. Fino ad allora gli studi scientifici erano una cosa, le esperienze personali un’altra. Finalmente, tra la fine degli anni Ottanta e i Novanta compaiono le prime ricerche qualitative: gli studiosi stessi cambiano il focus, non vogliono più parlare di numeri, ma di esperienze.
Dicevate che essere “guariti” non significa necessariamente non avere più sintomi…
Izabel. Il punto cruciale è proprio questo. Le persone che affermano di essere guarite possono anche esperire dei momenti di criticità, però hanno ricostruito una propria vita e sentono di avere una prospettiva davanti, un futuro.
Silva. Per quello che mi riguarda, io non penso mai ad una guarigione assoluta, nel senso di qualcosa di definitivo. Recovery per me è progetto di vita, è qualcosa per cui bisogna lottare ogni giorno. La guarigione stessa è un confine mobile, qualcosa che si sposta in avanti. È l’essere lungo un percorso di cambiamento per acquisire sempre delle nuove capacità, per migliorarsi, per star meglio, per soffrire di meno, insomma. La recovery va intesa come un processo verso l’autonomia, cioè la capacità di stare in piedi sulle proprie gambe. Tutto questo evidentemente non esclude il fatto che ci possano essere delle giornate negative o dei momenti difficili.
Quand’è che hai iniziato a pensare, se non di essere guarita, di poter stare meglio?
Silva. La mia è una storia che comincia nel 1980, una storia lunghissima segnata anche da momenti in cui vedevo solo buio attorno a me, da crisi e anche da molti ricoveri (non so neanche quanti, tanti sono stati) e però anche da una notevole capacità di ripresa, per cui, quando sto bene, sto proprio bene, nel senso che sono in grado di affrontare in maniera completamente responsabile tutti gli aspetti della mia vita, gli aspetti sociali, di lavoro e di ricerca, intellettuali, e anche tutte le cose pratiche che bisogna fare quotidianamente.
La sofferenza, che soprattutto in passato è stata veramente atroce, abissale e che ricordo con terrore, è qualcosa che io accetto, che fa parte di me. Dimentico più facilmente la fase di recupero rispetto ai momenti in cui sono stata male… quelli me li ricordo tutti. Quello che voglio dire è che tutto questo fa parte della mia vita e non solo l’ho accettato, ma so che mi ha aiutato a crescere; anche solo rispetto a cinque anni fa, oggi sono più contenta di me stessa, perché la sofferenza mi ha fatto andare avanti, mi ha fatto crescere. Anche se voglio essere chiara: dire che la malattia fa parte di me non vuol dire che io sono solo quello. Io uso sempre la perifrasi anglosassone “persone con esperienza”. Io sono una persona con esperienza di disagio psichico, ma sono forte di questa cosa, è un’esperienza di cui sono orgogliosa: io so delle cose che gli altri non sanno. Quando mi metto in rapporto con un dottore, con un medico, ora lo faccio in maniera abbastanza paritaria, nel senso che sono io che ho da raccontare delle cose sulla mia esperienza. Dopodiché, sia chiaro, io preferirei non soffrire. Col tempo ho imparato a chiedere aiuto…
Fa parte della guarigione anche saper riconoscere quando farsi aiutare…
Silva. Saper riconoscere di dover chiedere aiuto è un passo importante. Non voler soffrire è un buon segno. Ci sono anche persone che quasi si abbarbicano alla malattia, che fanno della loro malattia una strategia sociale, anche nell’ambito familiare. Invece io sono una persona che se potesse dire “sono guarita in maniera assoluta”, ecco lo direi con molta felicità, però non ho questa hýbris, questa tracotanza. Bisogna avere, invece, l’umiltà del giorno per giorno: oggi sono stata bene, questo mese sono stata bene, questi sei mesi sono stata bene…
Nella recovery, c’è la dimensione soggettiva, ma conta anche quella sociale. Che ruolo hanno gli altri nell’aiutare o nel boicottare?
Izabel. Una cosa che boicotta tantissimo nel sociale, è la questione dello stigma…
Silva. È per quello che fare il coming out è difficilissimo. Anche se poi io devo dire che le reazioni che ho registrato dopo la pubblicazione del libro sono state molto positive.
Izabel. Alcune persone scelgono di non parlarne mai, soprattutto nell’ambiente di lavoro. Il fatto è che la questione dello stigma è insidiosa. Spesso comincia ad emergere proprio nella famiglia e nel contesto più stretto. All’inizio magari c’è un’incomprensione, un’impossibilità di comunicare… a volte la famiglia non è preparata, altre è la famiglia stessa che alimenta il disagio. Perché la persona che sta male, se percepisce che c’è una risposta diversa, può cominciare a pensare che veramente in lei ci sia qualcosa che non va, qualcosa di brutto e di irrimediabile, creando una sorta di auto-stigma. In questi casi, può accadere un processo graduale di interiorizzazione del ruolo del diverso, del malato mentale. Questo lo si vede bene nelle istituzioni totali: il fatto che gli operatori dicano o pensino: “Tu non guarirai mai” fa sì che le persone interiorizzino questo senso di mancata speranza e di fiducia in se stessi… Una delle battaglie che hanno fatto molti utenti è stata anche quella per il diritto a non essere stigmatizzati dai servizi, soprattutto rispetto al linguaggio che gli operatori adottavano. Alcune persone addirittura si sono rifiutate di farsi curare proprio per non imbattersi in questa situazione. Insomma, lo stigma sicuramente non aiuta.
Che cosa aiuta invece?
Izabel. Sicuramente aiuta una dimensione di accoglienza in cui senti di poter essere come sei anche quando stai male. Poi contano le persone significative, che sono quelle che lasciano una traccia sul tuo percorso. Contano anche cose apparentemente insignificanti. Uno dei ragazzi di cui abbiamo raccolto la storia racconta del periodo in cui viveva da solo e stava veramente molto male; ecco, in quei mesi, il padre, finito il lavoro, arrivava, faceva la spesa, cenava con lui, dopodiché lo metteva a letto e gli rimboccava la coperta; proprio questi gesti l’avevano segnato molto.
Questo ragazzo aveva cominciato a star male o a percepire il suo malessere proprio nell’ambiente di lavoro. Infatti, a un certo punto, deve andarsene, perché non regge più, e lì crolla un pezzo del suo mondo: le relazioni di lavoro e anche le amicizie. La svolta per lui sarà tornare a vivere a casa dei suoi. Però questo passaggio non è affatto facile; non c’è mai niente di scontato nella vita di una persona che attraversa un problema psichico. Il ragazzo infatti ha dovuto conquistarsi questi spazi. La prima notte i genitori gli mettono una brandina in salone, solo piano piano gli restituiscono lo spazio che aveva occupato prima di uscire di casa, la sua camera. Ecco, lui racconta che, ad un certo punto, rientrato a casa, una mattina, si sveglia diverso. È una sorta di risveglio in cui sente di aver recuperato la volontà di vivere e di fare delle cose per sé.
Silva. Dalle storie che abbiamo pubblicato emerge un disagio diffuso. C’è molta sofferenza in giro e noi non sempre la vediamo. Molte persone purtroppo non solo non aiutano quando vedono una persona in difficoltà, ma anzi talvolta finiscono col renderle tutto ancora più difficile. Il non sentirsi adeguati sul posto di lavoro, l’avvertire un’incomprensione in famiglia, il vivere l’incomunicabilità, che non è una cosa letteraria, ma è proprio il non parlare, il non trovare mai la capacità di dire qualcosa di sé, sono situazioni dolorosissime.
Io non so che cosa aiuti. Nel mio caso, così come in altri, succede quando si tocca il fondo, cioè quando si tocca un punto che più in basso di così non potrebbe essere. Quello è un punto di svolta. Il toccare il fondo non è uguale per tutti, ma spesso è la chiave di volta del cambiamento. È il momento in cui si capisce che così non si vuole più stare, che bisogna fare qualcosa per stare meglio.
Io all’inizio ho messo in atto strategie diverse. C’è stato tutto un periodo in cui ho chiesto aiuto in privato, ma il vero momento in cui ho cominciato a capir qualcosa di tutto quello che mi stava succedendo è stato quando ho cominciato a frequentare i servizi e il centro di salute mentale di Barcola. Là ho trovato medici, operatori, una struttura, insomma, che ha saputo darmi l’aiuto di cui avevo bisogno. Io, da parte mia, ho lavorato molto per cercare di uscire dal mio isolamento, per mettermi in un contesto sociale. Proprio grazie al centro di salute mentale mi sono aperta soprattutto a questi gruppi di donne; ho fatto un percorso anche notevole, perché ad un certo punto sono stata presidente dell’associazione culturale “L’una e l’altra” e la prima presidente della Casa internazionale delle donne di Trieste, che è una realtà importante, un’aggregazione di otto associazioni.
In questi ultimissimi anni ho ripreso una dimensione un poco più isolata, non nel senso che non ho amicizie, ma nel senso che sono un poco più selettiva. Forse sto bene anche da sola. Ho ritrovato un equilibrio… Partecipo sempre a tante attività, ma scegliendo quelle che vanno bene per me e mettendo anche un puntello rispetto ai miei spazi privati, personali, familiari. Ho avuto una lunga relazione che si è conclusa tre anni fa. Certe volte la solitudine mi pesa, non posso dire di no, però è una mia scelta e va bene così. Ho tante amiche, anche amici uomini, ho una vita piena di interessi e di cose che faccio o che vorrei fare… insomma, posso dire che la sera vado a letto stanca. Però sono sempre seguita dal centro di salute mentale di Barcola.
Ma cosa vuol dire essere seguita?
Silva. Essere seguita vuol dire che assumo dei farmaci, mensilmente, e che ogni tanto faccio dei colloqui. Ancora un mese e mezzo fa ho chiesto aiuto. È successo tante volte. Comincia col panico, le voci, la sofferenza… A quel punto, se voglio sentirmi protetta, se ho il terrore di star sola a casa, chiamo un taxi e mi faccio portare al centro. Lì posso parlare con un operatore, con un medico che valuta la situazione. Se serve rimango anche la notte, questo succede quasi sempre, non è che sono lasciata da sola…
Ovviamente lo faccio quando sto proprio male: nessuno prende l’ospedale per l’albergo. Anche quella è una cosa che vorrei non si ripetesse più; come non vorrei più star male, così non vorrei più essere ricoverata. Queste sono le mie preghiere…
Sembra che gli episodi di ricaduta non siano così drammatici…
Silva. Forse sembra ma non è così. L’anno scorso, a novembre, è successo di nuovo ed è stato pazzesco. Sono un po’ in balìa di questa cosa, è più forte di me. Tra l’altro non necessariamente la crisi è legata a eventi stressanti.
Però quando esci, si ricomincia, non è una cosa che ti paralizza.
Silva. Sì, la crisi dura un periodo molto circoscritto, quando finisce ho un recupero molto rapido e sono di nuovo padrona della mia vita.
Il rapporto con i farmaci è problematico?
Silva. Quello con i farmaci è un rapporto vissuto, generalmente, in maniera ambivalente: ci sono quelli che assumerebbero farmaci a go-go, che ne abusano a rischio di una dipendenza e poi ci sono quelli che vorrebbero non prenderli mai. Io appartengo, piuttosto, a questa seconda categoria, ed è per questo motivo che faccio un’iniezione ogni mese. Siccome prendere le gocce mi metterebbe ogni sera di fronte alla malattia, al malessere, preferisco questa soluzione: succede una volta al mese e non ci penso più, mi dimentico quasi, rimuovo.
Però ogni volta è una sofferenza, cioè per me quello è un brutto giorno, vado un po’ in crisi, anche se dopo mi dimentico…
Izabel. Non è facile. Intanto devi trovare il farmaco giusto per te e sarebbe opportuno prenderlo per un po’. Lì conta molto il rapporto contrattuale col tuo medico: è fondamentale poterne parlare e anche sperimentare, per esempio provando a cavarsela senza il farmaco. Effettivamente, il farmaco può dare sensazioni di annebbiamento, di assenza, anche se sono tutti effetti molto soggettivi. Comunque molte persone hanno smesso di assumere farmaci.
Questo bisogna dirlo. Si tratta di persone che, in qualche modo, hanno trovato quell’equilibrio che permette loro di farne a meno accettando casomai di avere qualche scocciatura in più, di stare male…
La recovery è un percorso faticoso…
Silva. Sai, io vivo con le voci, se sono positive mi fanno compagnia, mi sostengono, mi danno anche la forza di vivere, sono quelle negative che distruggono. Io convivo con tutto questo… le voci, certe volte, le cerco proprio.
Le cerchi?
Silva. Sì, perché sono un grandissimo aiuto. Dall’anno scorso tengo un diario quotidiano in cui scrivo anche cosa mi dicono le voci.
Avete parlato di servizi orientati alla recovery, cosa significa?
Izabel. Ne stiamo discutendo adesso con un gruppo di studio sulla recovery composto da operatori e persone che hanno attraversato l’esperienza del disagio mentale. Chi è stato in cura presso un servizio di salute mentale dice che una cosa molto importante è il primo impatto con la struttura.
Silva. Quando una persona sta male, il come viene accolta è decisivo. Anche perché già andare in un centro di salute mentale costa una fatica inenarrabile, è dolorosissimo e allora il fatto che ti accolga un sorriso, che ti accolga una persona che si preoccupa e si occupa di te, individualmente, è fondamentale. Tra l’altro più si sta male e più si è sensibili e si colgono tutte le sfumature della risposta dell’altro.
Izabel. Le persone raccontano di essere osservatori molto “attenti” in quel momento, per cui i gesti contano molto. Per esempio, se vedi che l’operatore è un po’ alterato e alza la voce, questo può mettere a repentaglio l’intera accoglienza. D’altra parte il servizio ha una sua vita. I servizi di salute mentale sono molto attraversati, durante tutta la giornata. Per alcuni utenti questo è positivo: sono qui e sto da cani, ma vedo che c’è una vita intorno a me e questo mi aiuta. Per altri è negativo: sono talmente confuso che se vedo confusione attorno a me, non posso reggere. Comunque non basta l’attenzione, ci vuole anche umanità, la cosa funziona quando c’è soggettività da entrambe le parti. E poi deve crearsi un rapporto di fiducia. Prendiamo la questione delle voci. Molte persone non raccontano che sentono le voci, perché hanno paura di una medicalizzazione più pesante.
Perché si realizzi la recovery ci devono credere anche gli operatori, che i pazienti possano guarire. Su questo a che punto siamo?
Izabel. Qui apriamo un capitolo penoso, che riguarda anche la formazione. Se tu pensi alle università, ai futuri medici, a come vengono formati, in quale contesto, indubbiamente c’è tanto pessimismo e anche tanto pregiudizio.
Anche per questo motivo le nuove ricerche qualitative, basate sulla raccolta di esperienze di guarigione, sono importanti perché vanno ad aprire la mente di chi si sta formando adesso. La formazione conta molto. Dopodiché è chiaro che se lavori in contesti in cui non si crede alla possibilità di vita dignitosa, soddisfacente, il rischio della profezia che si autoavvera è molto forte. Il credere che è possibile è fondamentale. Tant’è che in questo gruppo di studio sulla recovery, alcuni utenti manifestano proprio questo bisogno: “Voglio che qualcuno mi dica che quello che ho non è così grave”.
Ma non basta. Un servizio orientato alla guarigione è anche un servizio che non rimanda a specialismi, ma che prende in carico la persona con tutta la complessità della situazione, dei suoi bisogni, desideri. Intanto se quella persona non ha un lavoro, se ha interrotto gli studi o se non ha una casa bisogna occuparsi anche di queste cose. Purtroppo con la contrazione delle risorse sta diventando più difficile, però gli obiettivi restano questi. L’idea è che si fa un pezzo di strada assieme; l’importante è che le persone camminino con le proprie gambe e su questo, secondo me, anche il servizio deve farsi una ragione. Cioè il servizio non deve cadere nella tentazione del “grande abbraccio”, deve essere capace anche di permettere che le persone rifiutino, si incazzino, vadano via, si emancipino del servizio stesso, senza però sottrarsi all’impegno di tutela della salute.
L’importante è che le persone che non sono più in contatto con il servizio, perché non ne hanno bisogno, lo tengano presente, sappiano che comunque c’è. Qui i servizi sono aperti ventiquattr’ore su ventiquattro, sette giorni su sette e chiunque può accedervi se ha un bisogno.
I centri di salute mentale restano luoghi che la gente cerca di evitare.
Izabel. Nessuno è mai contento di andare in un servizio di salute mentale. Prima di arrivare spesso i percorsi sono lunghi e tortuosi. Magari si preferisce andare prima da un medico in privato; da quando compare il problema all’arrivo in un servizio pubblico, possono passare anche degli anni. Non è una decisione facile quella di farsi assistere…
Oltre allo stigma, può esserci anche la paura della malattia, di vederla sancita?
Silva. No, non credo che sia tanto questo, perché se uno va dal medico privato, comunque ha riconosciuto perlomeno di non star bene e di aver bisogno di un aiuto. È più che altro la questione della privacy, della tutela, di non farsi vedere in quel posto.
Nelle storie che avete raccolto, in questa conquista di un benessere maggiore non c’è mai alcun trionfalismo…
Silva. C’è poco da essere trionfalistici. Io ho la consapevolezza di aver delle cose da dire; questa sofferenza, in qualche modo, l’ho fatta mia e mi è stata anche utile, diciamo, però avrei preferito non dover soffrire tanto, non sono masochista. No, nessun trionfalismo. Casomai, rispetto allo stigma, l’orgoglio di dire: “Sì, io ho quest’esperienza in più”, ma poi c’è tutta l’umiltà della fatica quotidiana e soprattutto del terrore che si ripeta…
Quello resta…
Silva. Io vivo molto il presente, ma se penso al futuro, penso molto a questo.
Izabel. La recovery si alimenta anche di questo dare importanza, portare rispetto alla propria esperienza. Alcune persone dicono che sono cambiate, che sono addirittura migliorate nel carattere, nel modo di prendere la vita. È come se questa esperienza gli avesse insegnato a vivere. L’altro giorno, parlando nel gruppo di studio che si è messo assieme per fare una bozza della carta della guarigione, un paio di ragazzi dicevano di essere talmente rispettosi della propria esperienza che non vorrebbero neanche parlare di guarigione, non osano.
Guarigione è una parola che non riesce ancora ad essere ben collocata. Sempre all’interno di questo gruppo, qualcuno ha chiesto se il medico scrive mai “guarito” sulla cartella. Non siamo riusciti a darci una risposta. Un’altra domanda posta da un utente è stata: “Ma quanto tempo deve passare perché io possa considerarmi guarito?”.
Se la malattia è un pezzo di te, la guarigione non può essere vissuta un po’ anche come un’amputazione, il perdere qualcosa? Si può affezionarsi alla malattia?
Izabel. Le persone dicono che le cose iniziano a cambiare quando c’è un’accettazione; la chiave è che pian piano cominci a convivere, a conoscere e a trasformare; il cambiamento avviene un po’ attraverso questo non negare l’esperienza della sofferenza. Quindi non è che ti strappi via qualcosa. La Deegan dice che è accettando le tue limitazioni, quello che non puoi essere, che cominci a fare le cose che vuoi fare e ad essere quello che vuoi essere. C’è questo paradosso.
Silva. Io credo che le persone non vogliano tornare a soffrire e che quindi vorrebbero guarire. Cioè, io, personalmente, non mi diverto affatto quando sto male. Voglio star bene, agogno a quello. Certo, non ripudiando niente di quello che è stato il mio percorso di vita.
L’unica cosa che chiedo è quella di non fermarmi, di continuare a migliorare come persona; su questo la malattia in effetti è uno sprone. Ecco, non so se stare in questo progetto di crescita mi sia concesso solo attraversando la sofferenza. Francamente vorrei provare anche al di fuori della sofferenza.
(a cura di Barbara Bertoncin)